Qualcuno ricorda il Banco Ambroveneto, Bipop-Cari-re, Rolo Banca 1473 o la Banca del Salento? Sono tutte banche che nell’ultimo quarto di secolo hanno fatto la storia del sistema creditizio italiano, nel bene e talvolta nel male. Come entità autonome sono scomparse ormai da anni e le loro insegne sono state sostituite sulle vetrine delle agenzie con quelle dei gruppi in cui sa no via via confluite. A volte questo processo è avvenuto in modo costruttivo, in altre decisamente meno. Insieme a numerosissime altre banche, però, tutte e quattro hanno partecipato a quella concentrazione che nel giro di vent’anni o poco più ha cambiato profondamente il panorama credi-tizio nazionale, facendo sparire istituti dalla storia centenaria, come la Banca commerciale italiana, il Banco di Sicilia, la Popolare di Lodi, il Banco di Napoli. Le 408 banche italiane censite attualmente dalle statistiche della Banca centrale europea (Bce), delle quali 97 autonome e le altre riunite in 56 gruppi, sono atti il risultato di una trasformazione profonda, che ne ha dimezzato il numero rispetto alla metà degli anni Novanta.

L’ULTIMA MOSSA
Una nuova accelerazione arriverà adesso, se andrà in porto la scalata che Intesa Sanpaolo ha lanciato per conquistare Ubi Banca, offrendo 17 azioni proprie ogni 10 della preda. Si tratta di una mossa che ha un obiettivo evidente: rafforzare il primo gruppo bancario sul territorio nazionale, rendendolo quasi inattaccabile. Anche se Intesa cederà a Bper Banca un numero compreso fra 400 e 500 agenzie con 1,2 milioni di clienti, come ha annunciato di essere pronta a fare per andare incontro alle prevedibili prescrizioni Antitrust, avrà comunque una fetta vicina al 20 per cento del mercato italiano. Se si guardano le quote di mercato dei concorrenti, Unicredit si ferma poco sopra 1’11 per cento delle filiali presenti sul territorio italiano, mentre sopra il 10 c’è soltanto un altro gruppo, se così si vuol considerare l’agglomerato delle banche di credito cooperativo riunite in Iccrea.

Chi in questi ultimi mesi ha seguito i segnali arrivati dalle autorità bancarie europee, forse non si aspettava la mossa tutta italiana decisa da Carlo Messina, numero uno di Intesa, ma certamente non può dirsi sorpreso dal fatto che il risiko bancario sia iniziato. Già da tempo, infatti, dopo la crisi dei mutui sub-prime del 2008 e quella dei titoli di debito pubblico del 2011, a Franco-forte si sono messe in discussione le strategie attuate nel sistema bancario nell’era dell’euro. Fin dal 2013 lo European Systemic Risk Board (Esrb), il comitato che ha il compito di sorvegliare il sistema finanziario dell’Unione per prevenire i rischi di contagio sistemico, aveva bolla-to come “extra extra large”, o XXL, il sistema bancario europea. E l’anno successivo il comitato dei consulenti scientifici dell’Esrb elaborò un rapporto dove si chiedeva se l’Europa non fosse ormai “overbanked”, con un apparato bancario eccessivamente “obeso”. La risposta alla domanda era ovviamente sì, e nell’abbondanza di dati che la suffragavano ne spiccavano alcuni di grande impatto: a partire dalla fine degli armi No-vanta i prestiti concessi dalle banche europee erano raddoppiati, superando il 100 per cento del Pil, una soglia di eccessivo indebita-mento dell’economia sopra la qua-le è documentato un nesso con la scarsa crescita; anche negli Stati Uniti nello stesso periodo si era registrato un aumento, di entità però non paragonabile, visto che i prestiti bancari erano passati dal 40 al 50 per cento del Pil. In nessuna altra parte del mondo si era registrata un’accelerazione simile, e anche le necessità di finanziamento del sistema bancario erano esplose di conseguenza: nel mondo, stando ai dati del 2012, i pochi Paesi con passività delle banche quotate superiori al 150 per cento del Pil erano quasi tutti europei, mentre il resto del pianeta stava quasi per intero sotto la soglia del 100 per cento. I motivi di questo sovradimensionamento degli istituti di credito europei identificati dal rapporto erano numerosi, e fra questi spiccava la tipica riluttanza delle autorità politiche a lasciar fallire e chiudere quelli mal gestiti, per paura delle conseguenze sociali ed economiche che ne sarebbero derivate.

IDEE RADICATE

Queste idee sembrano essersi ben radicate nella testa dei regolatori europei, che negli ultimi tempi hanno intensificato gli studi e gli interventi sul consolidamento del settore. Un consolidamento che finora non ha prodotto unicamente benefici, perché non sempre le fusioni o le acquisizioni hanno successo, come in Italia dimostrano ad esempio lo sfortunato track record del Monte Paschi di Siena prima con la Banca del Salento, poi con Antonveneta, oppure il processo che ha dato vita nel 2007 al Banco Po-polare, un gruppo arrivato ancora zoppicante nove anni più tardi alle nozze con Bpm, nel 2016.
Allo stesso tempo, però, i pun-ti di forza di operazione ben fatte possono essere diversi. Andrea Enria, presidente del Consiglio di Vigilanza della Bce, in un intervento tenuto lo scorso luglio a Lisbona, ne aveva identificati alcuni per le operazioni di aggregazione trans-nazionali, come la diversificazione degli investimenti, che avrebbe reso i gruppi più resilienti di fronte alle crisi, oppure l’allentamento del peso dei titoli pubblici di un singolo Paese dell’eurozona presenti nel portafoglio.

LA FORZA DELLE UNIONI INTERNE

Accanto a questi, però, Enda ne elencava altri che già possono ricorrere per i matrimoni domestici, di banche localizzate nello stesso Paese: le economie di scala e la maggior efficienza che ne deriva, oppure l’opportunità di accelerare l’innovazione tecnologica e di assorbire la capacità in eccesso. Un invito che, se riuscirà a superare l’opposizione della parte dei soci di Ubi contrari a farsi sfilare la loro banca, Intesa Sanpaolo ora ha deciso di cogliere.

Fonte:aflogo_mini