Da inizio anno le borse mondiali hanno perso tra il 25 e il 35%. Crollo generale, dal petrolio all’oro (perfino il bitcoin), perché il timore è quello di dover affrontare una lunga recessione. Sarà davvero così? Tutti i segnali da interpretare

di Massimo Brambilla
Il giovedì nero del Ftse Mib è partito alle ore 13:30 da quota 17.000, in concomitanza con il meeting della Bce, proseguendo fino al minimo segnato in chiusura a 14.094 punti: -16,92%, la peggior seduta della storia di piazza Affari. A guidare il ribasso le utility, le banche e il comparto oil, i primi in notevole sofferenza a causa delle forti vendite che hanno colpito i Btp, spingendo il rendimento del decennale sopra la soglia del 2% e lo spread Btp-Bund fino a sfiorare 270 centesimi a causa della delusione arrivata dal meeting della Bce. Il -10% con cui ha fatto seguito il Dow Jones ha sancito per Wall Street la giornata più pesante dopo il -22,6% del black Monday del 1987, la quarta nell’intera storia rivaleggiando con 1929, zavorrato dalla decisione di bloccare tutti voli con il continente europeo. A picco anche tutti gli altri listini, con l’eccezione di alcuni emergenti asiatici tar cui la Cina, a cui non è sfuggito l’euro contro i principali cambi. Nella serata di giovedì 12 la Federal Reserve, che già ha tagliato a sorpresa i tassi di 50 centesimi la scorsa settimana, è scesa nuovamente in campo con 1.500 miliardi di liquidità aggiuntiva a breve termine verso le banche e ora le attese sono per un nuovo maxi-taglio di 100 centesimi al costo del denaro nel meeting che si concluderà mercoledì 18 marzo, riportando così i Fed funds nella fascia 0-0,25% sperimentata nella crisi del 2008-2009.

La risposta italiana di venerdì 13 è arrivata tramite la Consob, che ha vietato tutte le operazioni al ribasso su 85 azioni per l’intera seduta, e tramite il Presidente della Repubblica, redarguendo pubblicamente la Bce e il suo presidente per lo scarso sentimento comunitario mostrato nel pomeriggio precedente, responsabile della nuova caduta dei mercati e dell’ondata di sfiducia sugli asset italiani in un momento in cui servirebbe invece la più alta solidarietà europea. Doverosamente puntuale è giunto il ritrattamento dell’Eurotower, dove il suo capo economista, Philip Lane, ha assicurato che Francoforte è pronta a superare temporaneamente, nelle situazioni di emergenza, i limiti sugli acquisti dei titoli di Stato dei vari Paesi, in modo che eventuali tensioni sugli spread di uno o più Paesi non minino il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. La reazione dei mercati azionari non si è fatta attendere, mentre si è rivelata più tiepida quella dei Btp e della moneta unica: i principali indici occidentali sono giunti a recuperare nella seduta quasi l’intero terreno perduto nella vigilia, ripiegando poi in scia a Wall Street (che ha poi avuto una nuova fiammata nel finale chiudendo in guadagno circa del 9,5%) e al petrolio. I corsi dei Btp e il cambio della moneta unica si sono invece mossi più sottotono: se da un lato è vero che il deficit aggiuntivo avanzato dall’Italia, a fronte del pacchetto di 25 miliardi di euro messo finora in campo dal Governo per fronteggiare l’emergenza economico-sanitaria, verrà escluso dai calcoli di Bruxelles (importo che necessariamente dovrà essere aumentato, visti anche i 550 miliardi di euro messi in campo per sé stessa dalla Germania), dall’altro lato è altrettanto pacifico che l’artificio non varrà per le agenzie di rating. Il debito pubblico e la spesa per interessi aumenterà e con essi crescerà anche il rischio di solvibilità del Belpaese, tendendo a spingere più in alto i rendimenti dei titoli di stato e lo spread anche alla luce dei rating attuali, che si trovano a un passo dall’uscita dall’importantissima area di investment grade.

Che cosa guardare. In estrema sintesi sono due i fattori chiave da cui dipenderà il momento dello stop alla discesa delle azioni, lasciando il posto a una fase di consolidamento dei prezzi e di rientro della volatilità: 1) quanto tempo durerà l’emergenza sanitaria; 2) a cosa andrà incontro il mercato del petrolio sul fronte dell’offerta, in termini di possibili scenari e comportamenti delle alleanze produttive (Opec, Opec+, shale oil Usa) dopo che le forti tensioni della scorsa settimana tra Russia e Arabia Saudita hanno provocato il crollo del 30% delle quotazioni minacciando nuove discese a partire da aprile. L’importante settore petrolifero e il suo indotto, infatti, siede negli Stati Uniti sopra una montagna di debiti con le banche, mentre il Medioriente possiede fiumi di obbligazioni e azioni occidentali tramite i fondi sovrani, che possono essere vendute (innescando nuovi ribassi) per finanziare i deficit di bilancio causati da prezzi del greggio troppo sacrificati. Oltre ai due fattori di stop alla discesa è importante individuare anche i due fattori che determineranno tempi e velocità di recupero delle quotazioni azionarie: in testa ci sono le manovre straordinarie di ogni Paese in termini di politica monetaria e soprattutto di politica fiscale, spesa pubblica compresa, a sostegno dell’economia, della liquidità e del credito. Che faranno la differenza per i relativi listini, come insegna la pronta reazione degli indici cinesi. In secondo luogo gli operatori osserveranno nel tempo la stabilizzazione dei prezzi del petrolio e l’avvio della successiva fase di tendenziale recupero, attesa tra l’inizio e la fine del secondo semestre in funzione del relativo livello di tensione commerciale tra i principali produttori.

Che cosa fare. Generalmente nulla, soprattutto per gli investimenti sul mercato azionario Usa, su quelli cinesi o sui megatrend (acqua, energie green, salute e invecchiamento, robotica e sicurezza informatica). A meno che si appartenga alla schiera di chi opera all’interno di una sola seduta, aprendo e chiudendo le posizioni prima della campanella finale: solo così si riuscirà a eludere il rischio elevatissimo di svegliarsi il giorno dopo con un’apertura di seduta violentemente contraria. Diversamente, visto che i bassi prezzi di borsa scontano già una rapida recessione tecnica in Cina e negli Usa e un po’ più lunga nell’Eurozona, non ha senso vendere ai prezzi attuali con perdite significative: così facendo si cristallizzerebbero infatti le minusvalenze in una fase in cui potrebbe essere improbabile vedere quotazioni azionarie sensibilmente più basse, salvo sporadici scivoloni momentanei dettati dalla volatilità e dall’emotività. La statistica dimostra che chi lo fa con l’intenzione di rientrare quando l’incertezza è minore sacrifica generalmente la parte iniziale del recupero che è spesso la più rapida e consistente. Per gli acquisti, invece, è più opportuno attendere almeno la fase di consolidamento delle quotazioni e il rientro dell’ipervolatilità, sfruttando magari gli immancabili scivoloni più evidenti che potranno comunque caratterizzare la fase con l’accortezza di impiegare ogni volta solo una porzione non rilevante del capitale disponibile per gli impieghi azionari, mediando così i prezzi di carico nell’assunzione crescente di nuove posizioni. L’ottica dei nuovi impieghi deve comunque essere nell’ordine almeno di qualche mese, o meglio fino a fine anno, potendo comunque decidere di incassare un risultato particolarmente fortunato se questo arrivasse nel breve. In questo contesto le azioni dell’Eurozona, piazza Affari in testa, potranno essere caratterizzate da una maggiore volatilità, e a tratti da una maggiore debolezza, a causa dell’attuale mancanza di coordinamento e solidarietà nella gestione dell’emergenza sia sotto l’aspetto sanitario e sia sotto quello economico, fattori entrambi estremamente importanti per i mercati. Il tempo di stabilizzazione delle quotazioni e della successiva ripresa sarà quindi conseguentemente più lungo, con l’Italia che potrebbe costituire una nuova sfida sulla tenuta comunitaria. Le banche e le utility di piazza Affari sono i settori più esposti a questo rischio misurato dallo spread Btp-Bund, ma le seconde offrono anche l’opportunità di esposizione al ghiotto trend dell’energia green.

Ricette per ripartire
Per alcuni esperti a Piazza Affari si è venduto troppo e ora, tra banche, assicurazioni e made in Italy, spuntano occasioni E tra i politici c’è chi propone di ricorrere a Btp dal fisco agevolato

di Elena Dal Maso
Difficile non lasciarsi cogliere dal panico quando si vede la borsa perdere il 20%, come è accaduto giovedì 12 dopo il discorso del governatore della Bce, Christine Lagarde, che ha dimostrato disinteresse nei confronti dello spread sui Btp che stava lievitando. E restare imperturbabili quando, 24 ore dopo, Piazza Affari reagisce con una fiammata (del 17% nel suo punto massimo). Ma alla iper-volatilità dei mercati bisogna abituarsi e soprattutto imparare a uscirne con meno danni possibili. Per stare alla cronaca, venerdì 13 le borse hanno rimbalzato da un lato in risposta al divieto di short imposto da Consob, dall’altro per l’intervento di Philip Lane, capo economista della Banca centrale europea, secondo cui Francoforte può tagliare i tassi, se necessario Una mano in quell’occasione l’ha data anche il governatore spagnolo Pablo Hernández de Cos, dicendo che «Se fosse necessario, compreremo i titoli di Stato italiani e di qualsiasi altro Paese» per evitare la divisione dell’Europa. Infine sempre venerdì pomeriggio il segretario al Tesoro Usa, Steven Mnuchin, ha anticipato un sostanzioso intervento per l’economia. Se in chiusura di seduta le borse hanno tirato il freno è stato dopo il rumor secondo cui il presidente Trump era pronto a dichiarare l’emergenza nazionale per il coronavirus.
Un fatto è certo: a dominare è la volatilità. Ma dopo che l’indice Msci Europe ha segnato giovedì 12 la maggiore perdita giornaliera della storia, spiega un report di Morgan Stanley, il rapporto prezzo/utili attesi dei titoli europei è caduto a 10,6 volte, contro una media storica di 13,2. Gli analisti americani ritengono che l’Europa sia a sconto e che valga la pena cominciare a effettuare investimenti selettivi tenendo però bene in mente che i prossimi mesi saranno in ottovolante e metteranno alla prova l’abilità di chi deve gestire un portafoglio. Al riguardo Morgan Stanley nota che, di solito i settori delle materie prime, dei materiali da costruzione, il comparto finanziario e quello assicurativo sono i primi a ripartire.
Comprare Italia, allora? In questa fase parlare di valutazione, con il rapporto p/e crollato a 7, può essere riduttivo, perché non si ha ancora visibilità sugli utili prospettici, non conoscendo l’evolversi della pandemia. Antonio Amendola, co-gestore Italia ed Europa di AcomeA, ricorda che «veniamo da anni di stimoli monetari che hanno gonfiato i multipli, aiutati dagli Etf e dai molti prodotti passivi o tematici». In una fase come questa, secondo Amendola, va fatta un’analisi su punti precisi: tipo di business model, livello di indebitamento, difendibilità del vantaggio competitivo. Secondo l’esperto nel mercato italiano molte vendite hanno già cominciato a fornire importanti punti di ingresso «a prezzi di saldo per chi come noi è sempre stato un gestore attivo». Per questo AcomeA guarda alle piccole e medie imprese, le multinazionali tascabili, «quei gioielli che tutto il mondo ci invidia e che sono la spina dorsale della nostra economia. Gioielli che sono lì con i loro prodotti in giro per il mondo da anni e che hanno superato numerose crisi nella storia», commenta il gestore. Per il quale il nostro sistema bancario oggi risulta essere molto più in salute dell’ultima crisi (2011) e molto più in salute della media europea, come si è visto con gli ultimi dati trimestrali. «Le banche italiane dopo anni di rimproveri (a tratti eccessivi) da parte del regolatore europeo, e dopo diversi eventi ambigui di applicazione delle norme europee (come il salvataggio di NordLB per la Germania o la sentenza Tercas per l’Italia) sono ancora in piedi e con bilanci solidi. Certo rimane il problema della redditività, ma quello è del settore», conclude Amendola.
Comprare Italia significa anche investire nel suo debito. Ma che cosa dobbiamo attenderci dai Btp? Venerdì 13 il decennale rendeva l’1,8%, 48 ore prima l’1,35%, mentre lo spread, il differenziale col il Bund, era a 236 punti. Per Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte sim, «nell’ipotesi di progressiva fuoriuscita dal picco dell’emergenza del coronavirus entro il secondo trimestre e alla luce delle aperture Ue su possibili maggiori stimoli fiscali, in deroga rispetto ai limiti fissati dai trattati, è ipotizzabile avere picchi di spread intorno a 250/300 punti base».

In questa direzione va anche la possibile apertura a ipotesi di schema di garanzie per il sistema bancario legato al corretto funzionamento delle operazioni Tltro III, «aumentato potenzialmente di mille miliardi di euro dalla Bce a supporto della difficile fase congiunturale», puntualizza Cesarano. Queste considerazioni inducono a ipotizzare che le eventuali turbolenze che potrebbero presentarsi nelle prossime settimane sul comparto dei titoli di Stato italiani in attesa del picco del virus «possano rappresentare opportunità di acquisto in forma graduale, in particolare le scadenze intorno ai cinque anni», aggiunge l’esperto. Oggi questa durata rende l’1,31%, solo lo 0,5% in meno del decennale e presenta minore volatilità.

Per sostenere il Paese il deputato leghista Giulio Centemero avanza una proposta: «L’idea giunge dal mercato, da un gruppo di trader e si tratterebbe di emettere un Btp Italia a cinque anni riservato ai residenti, con un’extra cedola legata all’andamento semestrale del pil, da pagarsi solo se sale e solo a chi porta il titolo a scadenza». Chi sottoscrive dovrebbe beneficiare della detrazione dell’investimento fino a 4 mila euro, come per gli interessi sui mutui, «oppure della deducibilità come quando si versa ai fondi pensione». In questo modo, conclude Centemero, «si permette a tutti di investire sulla ripartenza». A un Btp Italia agevolato pensa anche Davide Zanichelli, M5S, per il quale «serve mettere in campo quell’enorme riserva di cui dispone l’Italia, ossia il risparmio privato. Miliardi di euro che possono essere investiti nel Paese in modo trasparente e garantito». L’ipotesi è quella di un Btp Italia a imposizione fiscale ridotta, ma che sia destinato, precisa Zanichelli, a opere di «manutenzione immobiliare, infrastrutturale, al settore energetico, agroalimentare e delle telecomunicazioni».

Le azioni che rendono fino al 13%. E che ora non deluderanno

Gli investitori, che hanno dovuto affrontare la settimana più drammatica del secolo, con l’indice Ftse Mib che ha accusato giovedì 12 il peggior calo della sua storia (-17%), stanno adesso ragionando su quali siano le modalità migliori per mettere al riparo i capitali e nello stesso tempo sfruttare le opportunità che si sono create, in una prospettiva che deve essere necessariamente di medio e lungo periodo. Se infatti nel breve termine la visibilità sui prossimi sviluppi dei mercati è molto bassa, in un’ottica più ampia si possono considerare le chance di recupero che hanno alcuni titoli e nello stesso tempo i rendimenti delle cedole che offrono. Il crollo delle quotazioni ha portato infatti il dividend yield, pari alla cedola diviso il prezzo dell’azione, su livelli molto elevati, ma il punto cruciale è capire quali dividendi saranno confermati e quali no. La portata della crisi causata dall’epidemia di coronavirus, che nessuno è in grado di stimare con attendibilità oggi, avrà infatti un impatto molto forte negli utili aziendali, con la conseguenza che molte società potrebbero essere costrette a ridurre le cedole drasticamente. A quel punto sarebbero ancora attraenti, se confrontati con i rendimenti prospettici offerti da altre asset class? Per rispondere a questa domanda si può fare l’ipotesi che i dividendi 2020, così come sono ora attesi dal consensus di mercato, vengano drasticamente dimezzati. Ebbene, anche in uno scenario così negativo ci sono molti titoli che offrono un dividend yield 2020 (che sarà quindi distribuito nella primavera del prossimo anno) superiore al 5%.
Per partire però da una prospettiva più ravvicinata, e cioè dai dividendi 2019, che una volta proposti dai cda e già approvati dalle assemblee difficilmente saranno ridotti, ci sono titoli come Assicurazioni Generali che rendono il 7,6%, Intesa Sanpaolo addirittura oltre il 13%, Mediobanca il 9,7%, Azimut l’8,5% e Banca Generali il 10%, solo per fare alcuni esempi. Fra le aziende che hanno di recente annunciato l’importo delle rispettive cedole, Telecom Italia, dopo diversi anni di digiuno, ha comunicato, in occasione della presentazione dei conti dello scorso esercizio e del piano strategico per il triennio 2020-2022, la decisione di tornare a pagare un dividendo per le azioni ordinarie. Nel dettaglio il dividendo di quest’anno è di 0,01 euro per azione ordinarie e di 0,0275 euro per le risparmio. Venerdì 13 invece le Generali non solo hanno confermato il dividendo che staccheranno, ma l’hanno addirittura incrementato rispetto all’anno precedente. Il management ha proposto la distribuzione quest’anno di un a cedola di 0,96 euro per azione, in aumento rispetto agli 0,9 euro assegnati nel 2019.
Fin qui il quadro attuale, ma se si considera l’esercizio 2020, con i dividendi che saranno staccati nel 2021, lo scenario si complica per le ragioni prima spiegate. Nell’ipotesi tuttavia più drastica di un dimezzamento delle cedole, non mancano valide occasioni, tenendo presente che alcuni settori, come il petrolifero, saranno più colpiti dalla crisi di altri. Per fare qualche esempio, in base a un’elaborazione di Cellino & Associati sim, nel caso di Eni anche con un taglio del 50% della cedola, ai prezzi del 12 marzo, il dividend yield sarebbe del 6,8%, per Unipol del 5%, per Mediobanca del 5,4%, per Poste Italiane, così come Tenaris e A2A, del 4%. Per Generali e per la sua controllata Banca Generali intorno al 4,7%.

Le insidie dietro ai bond
Gli indicatori mettono in guardia sullo scoppio di una crisi finanziaria. L’epidemia ha rincarato la dose. Così ora per molti titoli di Stato e obbligazioni societarie il grado di rischio è al limite

di Stefania Peveraro
«Il virus mette a rischio la capacità di valorizzare gli attivi in portafoglio e di fund-raising da parte degli asset manager alternativi». Lo ha scritto chiaro Dea Capital nella nota che accompagna i risultati 2019, che si è chiuso con un quasi raddoppio degli asset in gestione a quota 22,6 miliardi, soprattutto grazie all’acquisizione del 38,2% di Queastio holding e dell’attività di gestione di npl di Quaestio Capital Management sgr. Così, avverte ora Dea Capital, «in attesa di poter valutare più compiutamente gli effetti del coronavirus, la gestione del gruppo continuerà a essere incentrata sullo sviluppo della piattaforma di alternative asset management (…)». Sulla stessa linea Tamburi Investment Partners, che ha avvertito che il 2020 sarà un anno molto complicato e che in particolare «i budget 2020 delle aziende, sia partecipate sia potenziali target, sono tutti sub judice e ancor più i piani pluriennali, per cui provare a ipotizzare scenari o addirittura programmi specifici è a dir poco azzardato».

Sono solo due esempi, ma il punto è che quest’anno le aziende di tutto il mondo registreranno una frenata di ricavi e margini, ma non se ne sa l’entità. È un problema di blocco di produzione e di domanda insieme, che stanno portando a una crisi di liquidità innanzitutto le aziende più piccole, ma non solo, perché tutte in queste settimane stanno bruciando cassa. E le agenzie di rating hanno messo le mani avanti per dire che le probabilità di default degli emittenti aumenteranno e che le banche si troveranno a fronteggiare un crescente volume di crediti detereriorati. Una bomba a orologeria per una crisi finanziaria globale, di cui già parlava un anno e mezzo fa il guru degli asset in distress, Edward Altman, professore ultraottantenne alla Nyu Stern School of Business, fondatore tra l’altro di Wiserfunding, startup fintech a Londra (con soci italiani) per calcolare i rating delle pmi europee non quotate (ha anche inventato negli anni Ottanta lo Z-Score, primo modello di valutazione standardizzata del merito creditizio aziendale, applicato alle aziende emittenti di titoli di debito).
Altman a Milano nel novembre 2018 ha presentato uno studio secondo cui dal mercato internazionale dei leveraged loan e dei bond high yield arrivavano segnali di allerta preoccupanti perché il monte di debito delle aziende era arrivato a livelli record, spinto soprattutto dalla crescita delle emissioni e dei finanziamenti verso aziende con rating di credito molto basso. Mentre i tassi di default erano ai minimi storici e negli Usa non si vedeva una recessione da otto anni. Altman, guardando a quanto accaduto nei decenni precedenti negli Usa, temeva che si stesse avvicinando una crisi finanziaria importante, nel giro di un anno o due. Ogni recessione, sottolineava Altman, è sempre stata preceduta da un minimo dei tassi di default, da un massimo dei tassi di recupero, da bassi rendimenti, soprattutto per gli emittenti high yield, da un’importante disponibilità di capitali disposti a investire nel debito di aziende a basso merito di credito senza prevedere adeguate garanzie pur di spuntare rendimenti più elevati. Tutte situazioni che si ritrovavano sui mercati sia a fine 2018, al momento della previsione di Altman, sia poche settimane fa, prima che l’incubo del coronavirus deflagrasse.
Innanzitutto c’è una mole di debito corporate mai vista in circolazione. A fine 2019 lo stock di bond corporate aveva raggiunto 13,5 mila miliardi di dollari a livello globale, più del doppio che a dicembre 2008 (studio dell’Ocse). E tutto questo debito è stato emesso a tassi sempre più bassi. Basta guardare ai grafici di uno studio condotto da S&P Market Intelligence a fine 2019 per capirlo. L’agenzia di rating calcolava che nel 2019 soltanto un 1% delle aziende corporate con rating B aveva emesso bond con un rating inferiore all’1% e che un ulteriore 15% ha emesso bond con rating compreso tra 1 e 1,99%, mentre c’è stato un buon 20% di emittenti con rating BB che ha spuntato rendimenti sotto il 2%. Allo stesso modo, sempre S&P aveva calcolato lo scorso autunno che il tasso di default per i titoli corporate con rating speculativo aveva raggiunto il minimo al 2,3% e che entro il 2020 si sarebbe ritrovato al 2,8%.
Tornando alle previsioni di Altman, con questo scenario di tassi e di credito è facile che – innescata la miccia – la bomba possa scoppiare. E oggi il contagio può rappresentare quella miccia. Soprattutto se le risposte ai problemi delle aziende arriveranno tardi e saranno troppo blande. Il governo italiano ha promesso un pacchetto di misure da 25 miliardi di euro a supporto di famiglie e imprese e si vedrà nei prossimi giorni che cosa conterrà, mentre la Bce ha varato un pacchetto di misure che in fondo non sono così male, in particolare la possibilità data alle banche di derogare ai ratio di capitale e liquidità, senza dubbio un bene visto che tra moratoria su mutui e prestiti e perdite su titoli di Stato le banche si trovano oggi in difficoltà a erogare nuova finanza alle aziende e a rispettare nel contempo i requisiti di capitale.

Contestualmente, però, come chiesto dall’Abi, sarebbe stato meglio che la Bce specificasse che l’adozione di misure di cosiddetta «forbearance» (sospensioni temporanee del rimborso dei mutui verso imprese prive di esposizioni deteriorate prima dello scoppio del coronavirus) non comporteranno alcun tipo di riclassificazione e una preventiva valutazione del merito creditizio e non saranno interpretate come misure volte a tutelare la stabilità finanziaria e come tali agevolate, come già chiesto anche dalla Federazione bancaria europea.
In ogni caso la Bce ha compiuto un passo utile, sebbene non abbia tagliato i tassi, peraltro già al minimo; passo che si aggiunge alle misure di potenziamento delle operazioni di rifinanziamento del sistema bancario e al potenziamento del programma di Quantitative easing. «Sull’azionario mi sento di dire che si può tornare», sostiene Roberto Tronci, chief investment officer di Albacore, oggi gruppo Alvarium. «Sul fronte bond invece non mi arrischierei. I titoli di Stato non sono attraenti perché i rendimenti resteranno ai minimi e vedremo parecchia offerta per finanziare strumenti che a loro volta forniranno liquidità al sistema finanziario. Quanto ai corporate, mi aspetto raffiche di downgrade di rating e un aumento dei default, quindi eviterei».

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