Nessuno sa se il mondo interconnesso in cui stiamo vivendo resterà lo stesso quando sarà passata l’emergenza coronavirus, così come nessuno è in grado di sapere se la Rete resterà quel foro virtuale in cui si incontrano in tempo reale miliardi di esseri umani. Tuttavia in questo scenario c’è un altro aspetto da considerare, in quando la miracolosa connessione di miliardi di viventi in contemporanea non è l’unica che la Rete ha consegnato alla modernità: è ormai in pieno sviluppo la connessione fra macchine, il cosiddetto Internet of Things (la Rete delle Cose, secondo la ormai notissima definizione di Kevin Ashton del Mit) che ha abilitato miliardi di oggetti fisici a interagire attraverso canali digitali creando nuove sotto reti e quindi nuovi mercati. I settori che sono stati maggiormente toccati da questa ennesima rivoluzione tecnologica trainata dalla Rete sono i più diversi, ma tutti molto incidenti sui nostri living standard: si va dalla gestione intelligente dei flussi di mobilità (come quelli delle zone a traffico limitato) attraverso videocamere alle centraline che rivelano con particolari sensori i tassi d’inquinamento all’interno delle aree urbane, dalla tracciabilità delle merci alla gestione efficiente dei rifiuti orientata dai flussi di raccolta fino alla razionalizzazione delle reti di distribuzione dell’energia. Le potenzialità di questa Rete delle Cose sono e restano straordinarie; secondo International Data Corporation, entro quest’anno gli oggetti connessi nel mondo saranno oltre 26 miliardi con un valore del mercato di riferimento di 7.100 miliardi di dollari. È stato un bene tutto ciò?
Sicuramente sì, in quanto l’Intemet of things può portare notevoli vantaggi ma al prezzo di un crescente e rovinoso rischio per la sicurezza. Niente può escludere – anzi, ad oggi lo si deve ritenere molto probabile – che il computer che controlla la nostra lavatrice o il frigorifero venga in futuro compromesso attraverso la Rete e, che so, mandi spam e-mails o faccia da sponda a siti pornografici o siti di iperviolenza; o che la nostra autovettura venga controllata da un punto oscuro o remoto della Rete e mandata deliberatamente a schiantarsi. Si potrebbero fare altri esempi sempre più cupi (basti pensare ai passibili danni ai sistemi computerizzati e online degli ospedali). È quindi imperativo che – se l’attuale emergenza lascerà la struttura del web come la conosciamo – assieme all’Internet delle Cose cresca in parallelo l’impegno delle istituzioni a tutti i livelli per alzare le protezioni tecniche e legali contro gli hacker e i cybercrime. Altrimenti Interiet of Things, invece di facilitare roso più razionale e redditizio degli strumenti e dei macchinari che utilizziamo, può diventare anch’esso l’inizio di un terribile incubo. (riproduzione riservata)

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