Pagina a cura di Dario Ferrara
Il proprietario non può essere diffidato a bonificare il terreno solo perché il sito risulta contaminato. Vale, infatti, il principio eurounitario «chi inquina paga»: il titolare dell’area non porta una responsabilità oggettiva, anzi l’amministrazione ha bisogno di un’istruttoria adeguata e di un accertamento rigoroso sul nesso causale fra le condotte imputabili e l’evento dannoso. È quanto emerge dalla sentenza 202/20, pubblicata dalla prima sezione della sede di Brescia del Tar Lombardia.
Il caso. Accolto il ricorso della società che aveva acquisito parte di una cava per realizzarvi un impianto per il pre-trattamento di rifiuti: annullato il provvedimento della provincia che imponeva all’impresa di intervenire soltanto perché l’azienda era titolare di una porzione del terreno, che peraltro all’epoca dei riempimenti non autorizzati era stato concesso in comodato alla ditta incaricata dei lavori. In base all’articolo 242 e seguenti del testo unico dell’ambiente, infatti, gli interventi di ripristino possono essere imposti soltanto a chi è responsabile dell’inquinamento oppure ai soggetti che l’hanno determinato in tutto o in parte con i loro comportamenti commissivi o omissivi. Il proprietario, comunque, ha la facoltà di realizzare volontariamente tutti gli interventi necessari, come d’altronde ogni altro soggetto interessato. Per il resto risulta tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione.
Come si fa a identificare il responsabile dell’inquinamento? Fondamentali le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia europea: in Italia non si applica il criterio penalistico della colpevolezza affermata soltanto oltre ogni «ragionevole dubbio», ma è in base il canone civilistico del più «probabile che non» che va individuato il nesso causale fra l’attività industriale svolta nel sito e la contaminazione dell’area. Per esempio verificando se c’è corrispondenza fra i componenti e le materie prima impiegate dal produttore e le sostanze inquinanti ritrovate nel terreno. Insomma: l’autorità ha bisogno di «indizi plausibili» per dare fondamento alla sua presunzione. E dunque la provincia avrebbe dovuto attivarsi, sentendo il comune, senza poter coinvolgere l’ex proprietaria dei suoli sulla sola base della titolarità dei suoli: così facendo ha violato tanto il codice dell’ambiente quanto i principi Ue.
Resta da capire che cosa succede se il «colpevole» della contaminazione non viene scoperto o non provvede alla bonifica. In tal caso a provvedere è l’amministrazione competente e le spese sostenute per i provvedimenti necessari possono essere recuperate agendo in rivalsa nei confronti del proprietario, che risponde entro i limiti del valore di mercato del sito dopo la bonifica. E a garanzia dell’amministrazione il fondo è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare.
I precedenti. Attenzione, però: affinché scatti la diffida a bonificare è sufficiente che vi sia più della metà delle probabilità che l’azienda abbia contribuito alle immissioni vietate. L’impresa che ha operato sul terreno contaminato deve pagare gli interventi di ripristino anche se non c’è la certezza che sia responsabile delle immissioni vietate perché nell’area si sono alternate nel tempo varie aziende, tutte impegnate in lavorazioni simili. Il tutto, spiega la sentenza 1543/16, pubblicata dalla prima sezione del Tar Piemonte, perché si applica il principio del «più probabile che non» nella responsabilità per la contaminazione rilevata nella falda acquifera locale. Niente da fare per l’azienda del settore automotive: deve farsi carico delle spese necessarie alla rimessione in pristino dopo che l’agenzia regionale di protezione ambientale ha rilevato nell’area inquinamento storico da cromo esavalente e da solventi clorurati. In effetti nell’area esiste da un secolo un’officina meccanica e l’area contaminata corrisponde alla vecchia cromatura, reparto chiuso molto prima che fosse impiantata in loco l’attività di produzione di ammortizzatori dell’azienda non condannata. Ma eccepirlo non giova all’impresa sopravvenuta perché ai fini della diffida a bonificare non si applica il criterio penalistico che richiede la certezza «al di là di ogni ragionevole dubbio». E le sostanze inquinanti rinvenute nelle acque costituiscono scarti e prodotti industriali tipici anche della sua lavorazione e nonostante le ultime bonifiche l’area risulta inquinata dalle stesse sostanze. Non resta che provvedere, dunque.
Il comune, tuttavia, non può multare il proprietario perché non demolisce gli abusi nell’immobile occupato: l’interessato non ha la disponibilità del bene e dunque è escluso che possa essere multato perché non provvede alla rimessione in pristino o che il cespite possa essere acquisito al patrimonio dell’ente. Neppure lo sgombero dell’area compete al privato, stabilisce la sentenza 1007/19, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia: anche qui si applica il principio Ue «chi inquina paga». Il tutto a patto che il destinatario dell’ordinanza si sia già rivolto alla procura della Repubblica segnalando la situazione anomala nella sua proprietà. L’ordinanza dell’amministrazione, nel caso in questione, è illegittima per due motivi: da una parte costituisce un obbligo di facere inesigibile perché non si può imporre la demolizione dei manufatti abusivi al proprietario che non può entrare sul suo fondo; dall’altro il provvedimento pone rimedio a una questione di ordine pubblico delegandola a un privato, mentre dovrebbero risolverla le istituzioni.
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