Ingresso ritardato nel mondo del lavoro e carriere a singhiozzo rendono le pensioni dei Millennials molto più basse di quelle dei loro genitori, che arrivano all’80% dello stipendio. Ecco quanto mettere da parte per arrivare a questo obiettivo
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Nell’ultima indagine sui bilanci delle famiglie italiane la Banca d’Italia afferma che si definiscono finanziariamente poveri quei nuclei i quali, anche liquidando tutte le attività finanziarie immediatamente disponibili, non hanno risorse sufficienti per evitare il rischio di povertà per almeno tre mesi. Eventi, attesi o inattesi, che comportino riduzioni del reddito familiare, come ad esempio il pensionamento, la perdita dell’impiego o l’insorgere di malattie gravi, possono mettere a rischio la capacità di fronteggiare periodi di difficoltà economica. Nel 2016, secondo i dati della Banca d’Italia, si trovava in questa condizione di vulnerabilità il 44% della popolazione, una quota decisamente superiore a quella rilevata nel 2006, prima dell’avvio della crisi finanziaria globale, ma in calo dal picco del 2012. «Gli effetti della prolungata crisi economica e finanziaria appaiono assai più pesanti quando si considerano insieme il reddito e la ricchezza», nota Banca d’Italia. Ma con l’inizio della crisi, osserva ancora la Banca d’Italia, il peso della povertà finanziaria è cresciuto più rapidamente di quella del rischio di povertà di reddito. Inoltre tra il 2006 e il 2016 il grado disagio materiale è stato diverso tra classi d’età; ne è disceso un ampliamento dei divari, prima contenuti, tra questi gruppi. «L’incidenza della povertà finanziaria è scesa dal 39 al 35% tra i nuclei con capofamiglia oltre i 65 anni, mentre è aumentata tra quelli con capofamiglia più giovane, in misura marcata in quelli con al massimo 40 anni, dal 40 al 57%». Si tratta della generazione dei Millennials, i nati nel ventennio tra l’inizio degli anni 80 del secolo scorso e il 2000, che deve fronteggiare un mercato del lavoro sempre più flessibile e quindi caratterizzato da buchi contributivi. Di conseguenza per loro la pensione non solo sarà lontana, ma sarà anche magra rispetto ai genitori perché con il metodo contributivo oggi in vigore l’importo dell’assegno è legata ai versamenti e quindi alla continuità lavorativa. E le ultime riforme della previdenza, culminate nel 2012, con gli interventi dell’ex ministro Elsa Fornero, hanno reso anche più marcate le differenze dei trattamenti previdenziali di chi è già in pensione, quindi quelle degli over 65, rispetto a chi ancora è in attività. Una distanza tra generazioni che in molti casi fa sì che siano proprio le pensioni dei genitori calcolate con il più generoso metodo retributivo, di fatto cancellato dalla Fornero, a sostenere il reddito dei figli che faticano a fare carriera o a entrare nel mondo del lavoro.

È quanto emerge anche dal focus del Censis intitolato Confcooperative Millennials, Lavoro Povero e Pensioni: Quale Futuro? Dalla ricerca risulta che esiste un esercito di 5,7 milioni di lavoratori con alle spalle una storia di lavori precari che, se questa tendenza non dovesse essere invertita, rischiano di alimentare le fila dei poveri in Italia entro il 2050. Il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, la discontinuità contributiva, la debole dinamica retributiva che caratterizza molte attività lavorative rappresentano un pericoloso mix di fattori che proietta uno scenario preoccupante sul futuro previdenziale e la tenuta sociale del Paese, dove le condizioni di nuove povertà, determinate da pensioni basse, saranno aggravate dall’impossibilità, per molti lavoratori, di contare sulla previdenza complementare come secondo pilastro pensionistico.

Il tutto mentre, conferma il Censis, aumenta la disuguaglianza tra generazioni. Infatti il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6%. Il sistema previdenziale obbligatorio attuale garantisce a un ex dipendente con carriera continuativa, 38 anni di contributi versati e uscita dal lavoro nel 2010 a 65 anni, una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione. A un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2012 a 29 anni, per il quale si prefigura una carriera continuativa come dipendente, 38 anni di contribuzione e uscita dal lavoro nel 2050 a 67 anni, il rapporto fra pensione futura e ultima retribuzione si dovrebbe fermare al 69,7%, quasi 15 punti percentuali in meno.
Questo, tuttavia, nella migliore delle ipotesi. Rischia di andare molto peggio a 5,7 milioni di persone. Infatti sono oltre 3 milioni i Neet (i giovani tra 18-35 anni che non lavorano e non studiano) che hanno rinunciato a ogni tipo di prospettiva a causa della mancanza di lavoro. A questi si aggiungono 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in «lavori gabbia» confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscire e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita professionale. A tutto ciò si aggiunge un problema di adeguatezza del «rendimento economico» del lavoro che espone al rischio della povertà. Lavorare, quindi, può non bastare. Per i giovani, in particolare, lo slittamento verso il basso delle remunerazioni, in assenza in Italia di minimi salariali, segnala in maniera ancora più marcata la separazione che sta avvenendo fra i destini dei lavoratori e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi di welfare.
Questo effetto di «sfrangiamento» del lavoro rispetto al passato è poi messo in evidenza dalle tipologie di lavoro a «bassa qualità» e a «bassa intensità» che si stanno via via diffondendo. Sono 656 mila i giovani con contratto part-time involontario. La scelta obbligata di lavorare meno ore di quanto essi desiderino evidenzia una situazione di inadeguatezza del lavoro svolto come fonte di reddito, tanto da diventare causa di marginalità rispetto alla potenziale disponibilità del lavoratore «Queste condizioni hanno attivato una bomba sociale che va disinnescata», dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, «lavoro e povertà sono due emergenze sulle quali chiediamo al futuro governo di impegnarsi con determinazione per un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del Paese. Sul fronte della povertà il reddito di inclusione, con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020, fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione». Per capire come correre ai ripari, MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza finanziaria indipendente Progetica una simulazione di quanto un giovane dovrebbe versare oggi ai fondi pensione per arrivare ad avere una pensione almeno pari a quella dei propri genitori che nel retributivo percepiscono una rendita pubblica fino all’80% dell’ultimo stipendio. «Abbiamo sviluppato quattro casi per dipendenti e quattro per gli autonomi con un reddito netto di 1.500 euro: con età di inizio lavoro a 25 o 30 anni, con carriera continua o con buchi contributivi», afferma Andrea Carbone di Progetica. Per la carriera precaria è stato ipotizzato un anno di interruzione contributiva ogni dieci anni: a 30, 40, 50 e 60 anni, con la cessazione del lavoro a 65 anni. La data di pensionamento non si modifica in nessun caso, perché sono tutti profili che, anche senza precariato, andrebbero in pensione al raggiungimento del requisito di vecchiaia, legato all’età.
Ai fini di una maggiore comprensione dell’importo delle pensioni Progetica ha indicato il numero di anni di contribuzione, che varia dal 43 al 70% in ipotesi di crescita della retribuzione dell’1,5% annuo. «Le cifre necessarie per raggiungere l’80% della generazione di nonni e genitori sono importanti: solo chi comincia presto a lavorare, a 25 anni, con carriere continue e facendosi aiutare dai mercati, può contenere il versamento necessario sotto i 100 euro mensili. In tutti gli altri casi i numeri salgono, anche in modo considerevole», sottolinea Carbone. Ad esempio un dipendente assunto a 30 anni con una carriera continua deve versare 210 euro al mese in una linea di un fondo pensione a rischio basso per raggiungere l’obiettivo. Se invece avesse interruzioni lavorative l’importo salirebbe a 377 euro. Per gli autonomi i contributi mensili al fondo pensione sono maggiori perché questi hanno una minore copertura pubblica dal momento che versano una percentuale minore del loro reddito alla previdenza statale. (riproduzione riservata)
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