di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Secondo l’ultimo studio condotto dalla Consob sui fondi comuni collocati in Italia ben il 70% delle commissioni pagate dai sottoscrittori vengono girate dalle società di gestione alle reti che collocano i prodotti. D’altronde non è mai stato un mistero che gran parte delle spese pagate dai risparmiatori vanno a remunerare i distributori ma il paper della commissione ha avuto il merito di alzare il velo su un tema, quello delle commissioni, che con l’avvento della Mifid II sono finite sotto pressione perché è aumentata la trasparenza. La direttiva infatti impone che venga dato ai risparmiatori un dettaglio sui costi molto più ampio rispetto al passato. Inoltre sempre da inizio anno è nato il prospetto semplificato dei prodotti finanziari, una sorta di bugiardino, sulla falsariga di quello in uso per i farmaci, che in poche pagine e con un linguaggio il più semplice possibile, deve dare agli investitori le più importanti informazioni da conoscere prima della sottoscrizione Se per le polizze finanziarie (unit linked) i prospetti semplificati sono già operativi da inizio gennaio, per i fondi e le sicav le norme entreranno in vigore da inizio 2020. E, nonostante manchino quasi due anni, sono già iniziate le grandi manovre dell’industria.

I primi tentativi delle società di gestione puntano a far sì che a tagliare i costi siano gli altri membri della catena del valore, ovvero i distributori. Va in questa direzione la decisione di Anima (intervista a pagina 24) di ridurre alcuni costi di ingresso (questi, a differenza delle commissioni di gestione che vengono prelevate direttamente dal fondo, sono pagati dal sottoscrittore al collocatore). Anche Mediolanum il mese scorso ha tagliato le commissioni di sottoscrizione sui due fondi legati ai Pir (Mediolanum Flessibile Sviluppo Italia e Mediolanum Flessibile Futuro). Dal 15 febbraio sono al massimo del 3%, rispetto al limite precedente rispettivamente del 4 e del 6% (mentre dal primo gennaio le commissioni di gestione di Sviluppo Italia erano state abbassate dal 2 all’1,5% e quelle di Futuro Italia all’1,75% dal precedente importo del 2,25%). Quella delle commissioni di ingresso è una spina dolente per i fondi collocati in Italia perché, come risulta dall’analisi Consob, negli ultimi anni sono cresciuti notevolmente, passando dallo 0,7 all’1,5%, Dal canto loro i collocatori, minacciati da queste pressioni, si attrezzano ad esempio lanciando fondi o gestioni con il proprio marchio (come sta facendo Fineco ). Dall’altra gli asset manager, ossia chi i fondi li produce, sempre sul fronte delle mosse per contenere i costi, si preparano completando la propria offerta con soluzioni low cost come Etf o fondi indice. Non a caso negli ultimi mesi molti colossi del risparmio gestito hanno debuttato nell’industria degli Etf, in particolare con una sempre maggior preferenza per i prodotti di tipo smart beta. Si tratta di Etf che nella forma sono passivi perché sono quotati in borsa ma nella sostanza sono gestiti. In sostanza gli smart beta sono detti anche Etf intelligenti perché non prevedono una pura replica degli indici, ma sono costruiti in modo attivo dalla società di gestione.

E, probabilmente, la via degli Etf attivi è proprio una modalità che permette ai gestori di proporsi direttamente ai risparmiatori senza passare tramite i collocatori. Un modo quindi per cercare di risparmiare e limitare di versare nelle casse di questi ultimi ricche commissioni. Fatti due conti, ad esempio, per un fondo azionario che in Italia, come emerge dallo studio Consob, costa in media attorno all’1,9% (la tabella in pagina riporta le spese correnti, in sostanza le commissioni di gestione dei fondi venduti in Italia domiciliati nei vari Paesi europei), la quota che andrebbe ai collocatori sarebbe attorno all’1,3%, sulla base della citata quota del 70% calcolata dalla Consob. Di conseguenza il restante 0,6% rimane nella mani della sgr. E si aggira proprio su questo livello il costo medio delle commissioni di gestione degli Etf azionari.

Il problema è che in Italia i fondi quotati, come gli Etf, non hanno ancora preso piede e il mercato resta saldamente nelle mani delle reti di consulenti e delle banche. Ma qualcosa si sta muovendo. «È verosimile che la nuova disciplina introdotta dalla Mifid II, che reca disposizioni più restrittive in materia di incentivi, possa determinare una revisione degli attuali modelli distributivi e commissionali», sottolinea la studio Consob. Ne è prova la scelta di due big come Franklin Templeton e Jp Morgan Asset Management (si veda intervista) che in questo inizio 2018 hanno lanciato i propri Etf su Borsa italiana. E in entrambi i casi si tratta di prodotti che prevedono un intervento del gestore, quindi sono bel lontano dai tradizionali prodotti passivi.
Nel caso del colosso Usa dell’asset management Franklin Templeton, noto per la sua gestione attiva, questo, dopo aver lanciato a fine 2015 a livello globale la divisione dedicata agli Etf (assumendo da Ishares, controllata di Blackrock, Patrick O’Connor, uno dei fondatori nel 1999), e aver debuttato nel 2016 con i primi prodotti smart beta, ora ha portato i suoi Etf anche in Italia. La società ha portato a Piazza Affari la gamma Liberty composta da cinque prodotti.

La scelta di investire sugli Etf potrebbe essere dettata anche dalla necessità di frenare i riscatti che nel 2017 hanno colpito duro. A livello globale la società ha avuto un saldo netto negativo nei nove mesi del 2017, secondo i dati Morningstar, di 38,6 miliardi di dollari su oltre 750 miliardi di dollari di masse, il secondo peggior risultato nel mondo e anche l’Italia non ha fatto eccezione con un rosso di 1 miliardo su asset per circa 17 miliardi cui si sono aggiunti altri 229 milioni fuoriusciti a gennaio. E la decisione di partire con gli Etf, è probabilmente dettata dalla necessità di rilanciare il business. In ogni caso per ora il segmento dei fondi comuni, seppur in calo, rappresenta oggi l’attività principale del gruppo non solo sul fronte internazionale ma anche in Italia dove qualche anno fa il gruppo era arrivato a gestire quasi 30 miliardi, masse scese a fine gennaio a 16,5 miliardi.

Per Franklin Templeton il mercato italiano appare promettente per gli Etf. «L’Italia», ha commentato Patrick O’Connor, head of global Etf di Franklin Templeton Investments, «è sempre stato un mercato strategico per Franklin Templeton in Europa considerati i volumi e il dinamismo del settore degli investimenti. La possibilità di offrire i nostri fondi LibertyQ Ucits Etf Smart Beta su Borsa italiana, la quarta piazza più attiva in Europa in termini di trading, è un passo fondamentale nel nostro percorso di creazione di una piattaforma Etf globale e di alta qualità».
Gli indici cui sono esposti questi Etf sono costruiti su misura, con un modello proprietario personalizzato del gruppo. «Gli investitori italiani», ha dichiarato Michele Quinto, co-branch manager e retail sales director di Franklin Templeton in Italia, «sono tra i più evoluti conoscitori e utilizzatori dello strumento Etf. In particolare gli investitori retail hanno cominciato con particolare interesse a investire una parte dei loro risparmi in Etf avendo fin da subito potuto constatare i principali vantaggi di investire in questi fondi, tra cui i bassi costi, il trading infragiornaliero e la liquidità».

Se i risparmiatori, anche per via della Mifid II, si stanno avvicinando sempre più agli Etf, questi strumenti sono già invece molto utilizzati dai gestori. «Gli Etf in Italia», ha aggiunto Antonio Gatta, co-branch manager e institutional sales director di Franklin Templeton in Italia, «hanno ottenuto ottimi riscontri soprattutto tra gli investitori istituzionali e fund buyers. In particolare le strategie smart beta multi-fattoriali consentono di ridisegnare un indice di mercato al fine di migliorare il rapporto rischio-rendimento e ridurre la sensibilità al beta di mercato. Questo spiega l’importante crescita degli Etf smart beta in Europa con numeri che si avvicinano a 42 miliardi di euro».

Nonostante l’appeal delle gestioni passive per via dei bassi costi, resta ferma la convinzione che la gestione attiva delle masse continuerà a coprire un ruolo di rilievo e quindi la via degli smart beta permette di far coesistere i punti di forza delle due modalità in un’industria, quella del risparmio gestito, che si trova di fronte a cambiamenti radicali nello sforzo di difendere e adattare alle nuovi condizioni di mercato dopo anni in cui le società di gestione hanno di fatto vissuto di rendita. Poco è infatti cambiato nel modello di business negli ultimi decenni, ma ora il settore anche per via dell’avvento delle nuove tecnologie, è a un punto di svolta. Un segnale forte è arrivato da Fidelity, colosso dell’asset management da sempre noto per la sua gestione attiva.

Ebbene, il gruppo ha deciso di cambiare approccio nello stock picking dando meno spazio alle scelte del singolo gestore andando verso un approccio in cui le decisioni di investimento sono realizzate da un team di money manager e analisti. Tra le cause di questa scelta c’è anche la convenienza della gestione passiva. Sempre il gruppo Usa qualche mese fa ha annunciato una revisione della propria politica di commissioni. Piuttosto che far pagare la tipica commissione di gestione in percentuale fissa, il gruppo ha detto che almeno in parte diventerà variabile e sarà legata alla performance del fondo. Il problema infatti è che troppo spesso fondi con rendimenti basso applicano comunque alti costi perché le commissioni di gestione sono prelevate direttamente dal patrimonio.

L’obiettivo è di conquistare per primi quel vantaggio competitivo che permette alle aziende di produrre ritorni sul capitale investito superiori ai concorrenti per lunghi periodi di tempo. E in un contesto in cui, come si accennava, c’è competizione, maggior ricerca di prodotti a basso costo da parte degli investitori e nuove normative costringono le case di gestione ad adattarsi a un contesto in rapida evoluzione che genera pressioni sui margini e favorisce il consolidamento all’interno dell’industria, Morningstar ha cercato di analizzare quali sono le mosse vincenti.

«Molti gestori attivi, ma anche alcuni passivi, saranno costretti ad aumentare le loro dimensioni per contrastare la riduzione degli introiti commissionali e i minori profitti», ha affermato Michael Wong, direttore della ricerca azionaria sul settore di Morningstar negli Stati Uniti. Quello dell’asset management non è un settore in cui è facile avere un vantaggio competitivo. I fattori che lo determinano sono principalmente i cosiddetti costi di switch (ossia di passaggio a un altro gestore) e i beni intangibili (un forte brand, relazioni consolidate con la rete di vendita). I primi possono non essere espliciti, ma per gli investitori cambiare società può comportare una tale incertezza che preferiscono rimanere dove sono. Morningstar stima che il tasso medio di turnover annuo, su più orizzonti temporali, sia intorno al 30% per i fondi a lungo termine (esclusi, cioè i monetari). Questo tipo di vantaggio può essere incrementato in vari modi, ad esempio ampliando la gamma o la presenza geografica.

Le barriere sono basse nell’industria del risparmio gestito, ma non è facile raggiungere le necessarie economie di scala per sopravvivere. La capacità di trattenere gli asset, quindi, è un fattore distintivo delle società. Le analisi di Morningstar mostrano che chi ha avuto questa abilità in differenti situazioni di mercato ha registrato livelli di redditività più stabili e ritorni sul costo del capitale superiori per periodi di tempo più lunghi. E’ possibile ottenere risultati ancora migliori con un buon mix di prodotti e una cultura aziendale unica. Sul versante opposto, anche gli operatori di nicchia con strumenti che rendono difficile passare alla concorrenza, come quelli previdenziali o i fondi a scadenza, tendono a mantenere i clienti per più tempo. Tra gli operatori coperti dall’analisi di Morningstar, solo sette hanno un ampio ventaglio di vantaggi competitivi.

Uno di questi è BlackRock, che ha tra i suoi punti di forza le dimensioni, la potenza del brand, la presenza geografica e la diversificazione della gamma. In particolare, l’essere gestore passivo, oltre che attivo, gli ha permesso di cavalcare l’ascesa dei fondi indicizzati, soprattutto attraverso la controllata iShares, che ha una quota significativa del mercato globale degli Etf. Ma nonostante l’avanzata dei prodotti passivi, si può restare un passo avanti anche rimanendo gestori esclusivamente attivi. È il caso di T. Rowe Price considerata, tra le case attive statunitensi, quella meglio posizionata grazie alle sue dimensioni, alla capacità di trattenere le masse, al brand forte, alle solide performance degli investimenti e alle commissioni ragionevoli. A fine 2017 il 72% dei suoi fondi batteva i concorrenti americani per rendimenti a un anno e l’84% sui tre anni.

Questi risultati, insieme a fee contenute, spiega Morningstar, gli danno la possibilità di crescere nel segmento dei risparmiatori seguiti dai consulenti finanziari, oltre a quello istituzionale, dove è tradizionalmente forte. Ed è proprio di T. Rowe Price il miglior fondo azionario Europa collocato in Italia per rendimento a un anno. Il comparto ha reso quasi il 28% battendo di gran lunga il primo Etf di categoria, lo Xtrackers Msci Europe Small Cap, che ha fatto quasi la metà (14,2%). E’ quanto emerge dalla classifica Fida che ha messo a confronto le performance dei migliori fondi ed Etf nell’ultimo anno per le principali categorie (si veda tabella). Nell’azionario Italia, spicca il fondo Anima Iniziativa Italia con il 35%, oltre dieci punti percentuali in più rispetto al primo Etf specializzato su Piazza Affari, il Lyxor Ftse Italia Mid Cap Pir che nel periodo ha reso il 24,8%.

Infine sono ben messi, secondo la metodologia Morningstar, alcuni gruppi che oltre a gestire patrimoni svolgono attività di banca di custodia, come State Street, Bny Mellon e Northern Trust. In questi tre casi, elementi distintivi sono le dimensioni e la capacità di servire i clienti istituzionali a livello mondiale. «Siamo consapevoli che, in un mondo in cui le gestioni passive acquisiscono sempre maggiore peso, lo spazio per i gestori attivi sarà limitato a pochi leader globali degli investimenti, in grado di proporre ai propri partner di investimento soluzioni attive basate su un apparato di ricerca proprietario significativo, nonché in grado di supportare la proposta degli stessi alla clientela privata», ha sottolineato Alberto D’Avenia, country head Italia di Allianz Global Investors. (riproduzione riservata)
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