Pagine a cura di Antonio Ciccia Messina

Stop alla medicina difensiva. È l’effetto della riscrittura integrale della disciplina della responsabilità sanitaria. Curare e curarsi sono attività rischiose e il regime della responsabilità può spostare l’ago della bilancia da un comportamento più coraggioso per sconfiggere le malattie (ma più a rischio di responsabilità per il medico) a uno più prudente (per il portafoglio di strutture e professionisti), ma a costo di minore efficacia per il malato. Il precario equilibrio trova nuovi punti di appoggio con la legge sulla responsabilità dei camici bianchi.

Le coordinate tracciate dalla nuova legge (approvata definitivamente dalla camera il 28 febbraio 2017), che modifica i presupposti sia della responsabilità civile sia di quella penale, disegnano un quadro in cui trovano posto innanzi tutto i protocolli di riferimento (linee guida e best practice) per misurare la perizia del medico; più ci si allontana dalla prassi migliore codificata, più si mette a repentaglio la salute del paziente e più il medico deve rispondere davanti a un giudice.

I protocolli e le buone pratiche (si discute, però, su chi deve scriverle senza conflitto di interesse) sono l’unità di misura della responsabilità del medico penale (esclusa per imperizia). La responsabilità civile si sdoppia: contrattuale per la struttura sanitaria ed extracontrattuale per il medico. Il maggior rischio consentito è compensato dalla assicurazione civile obbligatoria e le cause si stemperano con l’obbligo di preventiva conciliazione (partecipazione coatta anche per le compagnie). Ultime ma non meno importanti troviamo le regole su più trasparenza (mai più cartelle cliniche secretate di fatto) e un sistema sociale di assicurazione (con il fondo di garanzia per le vittime).

Ma vediamo i passaggi cruciali della nuova legge.

Rischi civili. La responsabilità civile diventa bifronte. Una faccia è quella della responsabilità delle strutture e l’altra faccia è quella della responsabilità del medico. L’articolo 7 prevede che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che nell’adempimento della propria obbligazione si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e anche se non dipendenti dalla struttura, risponde delle loro condotte dolose e colpose ai sensi degli articoli 1218 (responsabilità del debitore) e 1228 (responsabilità per fatto degli ausiliari) del codice civile. La disposizione si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria, ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina.

Sintetizzando la responsabilità della struttura è contrattuale: il paziente conclude con la struttura un contratto, che prevede l’esatto adempimento della prestazione sanitaria.

Il medico, invece, risponde ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Questo significa che il medico risponde come l’autore di un fatto illecito (perché ha cagionato un danno con una condotta dolosa o colposa), e non di contraente una obbligazione contrattuale.

La distinzione sembra di lana caprina, ma quello che si comprende è che siamo di fonte a un tassello che vuole dare maggiore tranquillità ai medici. Si considerino, a questo proposito, le differenze tra i due tipi di responsabilità. La responsabilità contrattuale per la struttura prevede l’onere della prova (di avere fatto le cose per bene) a carico della struttura stessa e termine di prescrizione di dieci anni; la responsabilità extra-contrattuale per l’esercente la professione sanitaria (qualora direttamente chiamato in causa) a qualunque titolo operante in una struttura sanitaria e sociosanitaria pubblica o privata, salvo il caso di obbligazione contrattuale assunta con il paziente, prevede l’onere della prova (della condotta illecita) a carico del paziente o comunque del soggetto che si ritiene leso e termine di prescrizione di cinque anni. In sostanza la strada per il risarcimento è più facile nei confronti della struttura rispetto a quella nei confronti del medico.

La trafila. La legge traccia un percorso tutto nuovo del procedimento del risarcimento. È previsto l’obbligo di tentare una conciliazione, ma in un ambito di garanzie per tutti.

Il tentativo va fatto nel corso di una procedura ufficiale e cioè l’accertamento tecnico preventivo (Atp): si chiede al tribunale di nominare un collegio di periti e si chiede di accertare i fatti e di provare a mettere d’accordo tutti quanti. Per evitare fatiche inutili, la norma prevede l’obbligo di partecipazione all’Atp anche delle assicurazioni. Chi non partecipa deve comunque aprire il portafoglio nella fase giudiziale successiva. Se non si tenta la conciliazione non si può fare causa. Proprio le compagnie sono protagoniste assolute della legge che impone l’assicurazione obbligatoria (con clausole di retroattività e ultrattività a favore dei danneggiati) e consente ai danneggiati l’azione diretta contro le società assicuratrici.

Nella determinazione del risarcimento del danno il giudice deve tenere conto della condotta del rispetto delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida di futura emanazione. I protocolli diventano parametri per la valutazione della responsabilità sia civile sia penale.

Quanto alle modalità di risarcimento del danno viene prevista la sua liquidazione sulla base delle tabelle del codice delle assicurazioni private (dlgs n. 209/2005, articoli 138 e 139). Il riferimento è alle tabelle uniche nazionali dei valori economici del danno biologico il cui aggiornamento è disposto annualmente con decreto del Ministero dello sviluppo economico. Su questo punto c’è polemica, perché gli importi potrebbero essere non così soddisfacenti nell’interesse del paziente e dei suoi familiari.

Al risarcimento segue lo strascico della rivalsa della struttura nei confronti del medico, con limiti e tetti a garanzia della serenità del professionista (che deve pensare più a curare le persone che a salvaguardare le proprie spallucce). L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. E comunque ci sono importi massimi invalicabili.
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