Il fisso supera il variabile, ma spunta un modello ibrido
Pagina a cura di Tancredi Cerne

Fisso o variabile, questo è il dilemma. In uno scenario economico dominato da un costo del denaro prossimo a zero e da un tasso interbancario negativo (-0,40%) l’amore degli italiani sembra tutto indirizzato verso i mutui a rata costante. Ma il futuro potrebbe riservare molte sorprese. Soprattutto nel lungo periodo. Nonostante la decisione della Banca centrale europea di prorogare il Quantitative easing almeno fino a dicembre, le pressioni sul costo del denaro provenienti da Oltreoceano potrebbero innescare una risalita dei tassi Eurirs, punto di riferimento di chi sottoscrive un mutuo a tasso fisso, spalancando le porte al ritorno del variabile. In base alle rilevazioni di Mutuionline, infatti, per un finanziamento ipotecario di durata compresa tra 10 e 20 anni, il livello medio di interessi pagato dal sottoscrittore alla banca si aggira oggi intorno al 2,40% nel caso di mutui a tasso fisso e dell’1,13% per il variabile. Una differenza molto contenuta che ha fatto propendere le scelte della maggioranza dei mutuatari verso la rata fissa, leggermente più costosa ma sicuramente meno volatile e incerta. Analizzando infatti la curva dei tassi si scopre che soltanto cinque anni fa per sottoscrivere un finanziamento ipotecario a tasso fisso bisognava mettere in conto di pagare alla banca, tra spese e interessi, oltre il 6% all’anno a fronte di un 3,70% del variabile. Che tradotto in soldi vuole dire quasi 3 mila euro in più all’anno di interessi su un finanziamento di 100 mila euro. Da quel momento in avanti il costo del denaro è progressivamente calato fino a toccare un minimo del 2,3% la scorsa estate quando il tasso Eurirs a 20 anni ha segnato il minimo storico a 0,65%. «Lo scorso anno 62,8% dei mutuatari ha optato per la programmazione certa e sicura dell’impegno economico, mentre il 20,3% ha preferito il tasso variabile puro», hanno spiegato gli esperti di Tecnocasa secondo cui, rispetto al secondo semestre 2015 è aumentata la percentuale di mutui a tasso variabile con Cap (passati da 3,8 a 14,5%) ovvero di quei finanziamenti ipotecari equiparabili a un mutuo a tasso variabile puro ma con l’opzione di avere un tetto massimo (definito in fase di stipula del contratto) che il tasso non può superare. Primo segnale dello spostamento progressivo del popolo dei mutuatari verso uno strumento di finanziamento a metà tra il tasso fisso e quello variabile. In realtà, prima di optare per l’uno o per l’altro, è bene considerare alcune variabili. Come prima cosa, i futures sull’Euribor, ovvero il benchmark di riferimento per i mutui a tasso variabile attualmente pari a (-0,33%). Le previsioni parlano di un valore dell’indicatore, negativo ancora per un paio d’anni, prima di portarsi in area 0,60 alla fine del prossimo quinquennio. A conti fatti, dunque, il costo di un mutuo a tasso fisso e di uno variabile dovrebbero incontrarsi soltanto nel 2021 determinando una maggiore economicità per il variabile per le persone che oggi decidono di puntare su una durata del finanziamento piuttosto contenuta (al massimo dieci anni).

Il sistema di calcolo degli interessi da parte delle banche, infatti, prevede che il sottoscrittore di un mutuo inizi a versare all’istituto di credito gli interessi dovuti entro la prima metà del periodo finanziato per andare poi a saldare il proprio debito restituendo il capitale residuo di lì alla fine del contratto di finanziamento. Ma le variabili in gioco non finiscono qui. A determinare la scelta tra fisso e variabile entra in gioco anche la previsione sull’andamento del tasso di inflazione.

Le decisioni di politica monetaria della Banca centrale europea, infatti, vengono determinate in gran parte in base all’andamento dei prezzi e dei salari. Con la conseguenza che una forte pressione inflativa si tradurrebbe in un innalzamento del costo del denaro con ricadute pesanti sui sottoscrittori di finanziamenti ipotecari a tasso variabile.

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