La domanda di welfare aziendale è destinata a crescere in maniera irreversibile». Pier Paolo Baretta, 68 anni, già dirigente sindacale e profondo conoscitore del mondo del lavoro, sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze negli ultimi tre governi, Letta, Renzi e Gentiloni, rappresenta il fil rouge dell’impegno dell’amministrazione nel seguire e appoggiare un settore con una forte valenza sociale. «Si vive di più, e il prolungamento dell’attesa di vita sollecita il welfare pubblico già sotto pressione.

Lo Stato da solo non ce la fa più; la risposta pubblica ai bisogni di welfare non basta. Ecco perché credo che la strada imboccata con le ultime norme sul welfare aziendale sia senza ritorno», ha argomentato con MF.

Domanda. La crisi ha aggiunto urgenza a una dinamica che era già in corso. Qual è l’elemento di novità in campo?

Risposta. C’è una diffusione massiccia di iniziative diversamente riconducibili al welfare aziendale perché l’instabilità economica crea maggiori preoccupazioni nei lavoratori, non solo nelle imprese, circa la più opportuna allocazione delle proprie risorse economiche. Quindi l’obiettivo sempre più focalizzato è conquistare nuove prestazioni sociali, senza erodere la retribuzione base.

D. In che modo?

R. La nuova stagione del welfare integrativo ha favorito la conversione dei premi di risultato aziendali in flexible benefit, in prestazioni destinate a sostenere il lavoratore, la sua famiglia in un nuovo work-life balance.

D.

In questa chiave quali novità hanno portato la legge di Stabilità 2016 e la legge di Bilancio 2017?

R. Si è dato un nuovo sistema alla struttura di welfare aziendale, favorito e incentivato anche fiscalmente. In questa scelta di Governo vedo un pezzo di nuova democrazia economica. L’idea di un più adeguato servizio c’è, ma c’è la scommessa di favorire relazioni sociali e industriali più moderne.

D. Che cosa intende esattamente?

R. Il premio di risultato convertibile in benefit è uno dei modi per assicurare un sempre più forte coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’azienda. Le opzioni e le scelte personalizzate favoriscono la costruzione di percorsi di soddisfazione più aderente alla propria propensione di benessere in azienda. È un modo per segnalare le nuove esigenze nel mondo del lavoro. Il welfare aziendale nel suo complesso diventa anche strumento di aggiornamenti dei nuovi bisogni, un paniere dei nuovi consumi di benessere personale e familiare.

D. Per esempio?

R. La previdenza complementare ma anche l’asilo nido pagato dall’azienda, la palestra, i libri scolastici per i figli, senza dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai servizi di sanità integrativa. Negli ultimi anni i fondi di sanità integrativa sono ormai diventati più di 300, poco meno di quelli nati nel segmento della previdenza.

D. Ponendo forse anche un problema di vigilanza e controllo…

R. L’esperienza fatta nel mondo della previdenza va utilizzata per mettere mano alla regolazione del sistema della sanità integrativa. La Covip ha fatto molto e bene nel vigilare lo sviluppo e la vita dei fondi pensione. Nel mondo della salute devono essere introdotte regole e comportamenti certi nella gestione dei fondi, a maggior tutela dei cittadini. Oggi c’è solo l’obbligo di iscriversi all’Anagrafe tenuta presso il Ministero della Salute”.

D. Quindi?

R. Ci vuole un’authority, che sia la Covip, lo stesso Ministero della Salute o un nuovo soggetto, che tenga conto delle caratteristiche specifiche e peculiari delle prestazioni sanitarie.

D. Il welfare aziendale non rischia di oscurare i bisogni di welfare dei lavoratori autonomi, per le partite Iva, per coloro che non sono dipendenti nelle aziende?

R. Il problema c’è e rischia di dividere i lavoratori. Io preferisco guardare con ottimismo: lo sviluppo del welfare in azienda costringe a vedere questa sperequazione, questa divaricazione che non è giusta, ma che non può frenare verso il basso. Bisogna alzare l’asticella, anche per chi oggi è meno tutelato. C’è un problema di struttura dei diritti. Quello che definisco la necessità di definire la portabilità dei diritti.

D. Che cosa significa in pratica?

R. In una congiuntura in cui i lavoratori, soprattutto quelli più giovani, vivono in un mercato del lavoro frammentato ed elastico, si debba immaginare, anche per il welfare aziendale, una sorta di ticket associabile al lavoratore, indipendentemente dal luogo in cui il lavoro viene concretamente svolto. È tempo di compiere una riflessione complessiva sui sistemi di relazioni industriali: non si può che immaginare un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nei destini dell’impresa.
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