Nell’ipotesi di malattia a eziologia multifattoriale – quale il tumore – il nesso di causalità relativo all’origine professionale di essa non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, che può essere, peraltro, data anche in via di probabilità, ma soltanto ove si tratti di probabilità qualificata, da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre in certezza giuridica le conclusioni in termini probabilistici del consulente tecnico.

Nella malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità.

A tal fine il giudice, oltre a consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio, diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità dell’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, potendosi desumere, con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall’assenza di altri fattori causali extra/lavorativi alternativi o concorrenti.

Nel caso in esame tutta la motivazione della sentenza impugnata ruota intorno alla consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado e alla sua totale adesione, senza tuttavia che siano state esplicitate le ragioni per le quali fattori di rischio pur ben evidenziati nella consulenza tecnica d’ufficio e costituiti dall’esposizione

  1. a idrocarburi policiclici aromatici
  2. all’amianto
  3. a benzene, piridina e ossalato di ammonio,

non abbiano avuto alcuna incidenza neppure concausale nel determinismo della malattia.

Ora se è vero che la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce un mezzo di prova, ma è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario o utile per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, sicché la nomina del consulente rientra nel potere discrezionale del giudice, che può provvedervi anche senza alcuna richiesta delle parti  – è altrettanto vero che, in base alla giurisprudenza, il controllo, in sede di legittimità, in materia è principalmente orientato alla valutazione della adeguatezza della motivazione sulla scelta del Giudice del merito di non esercitare il potere discrezionale di nomina del CTU o di rinnovazione della consulenza.

Tuttavia, se la consulenza tecnica d’ufficio si risolve nell’accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche – come avviene con la consulenza medico-legale – il giudice può aderire alle conclusioni del consulente senza essere tenuto a motivare esplicitamente l’adesione, ma se le affermazioni contenute nell’elaborato peritale siano oggetto, nella impostazione difensiva della parte, di critiche precise e circostanziate idonee, se fondate, a condurre a conclusioni diverse da quelle indicate nella consulenza tecnica, allora non adempie all’obbligo di motivazione il giudice che, per confutare le suddette critiche, si limita a generiche affermazioni di adesione al parere del consulente.

A ciò deve aggiungersi che secondo giurisprudenza consolidata, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, per il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento; solo se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge.

Nella specie, la Corte d’Appello non si è attenuta a questi principi, atteso che, pur in presenza di una pluralità di cause, quale l’esposizione a sostanze nocive e il tabagismo, ha rigettato la domanda in base a un giudizio fondato su affermazioni apodittiche e generiche, senza fornire adeguata motivazione sul perché, nonostante la pacifica prolungata esposizione ad agenti patogeni -come gli idrocarburi, il benzene, la piridina, l’ossalato di ammonio e l’amianto- che presentano coefficienti di rischio cancerogeno, come affermato dallo stesso consulente, sia pervenuto alla conclusione che la patologia che ha provocato il decesso non può in alcun modo essere correlata all’esposizione lavorativa, attribuendo invece efficacia causale esclusiva al fumo.

Tale giudizio può essere espresso solo se con certezza si ravvisi l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 7 marzo 2017 n. 5704