E’ consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, di un effettivo pregiudizio.

È l’impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa. Se, invece, è l’esistenza stessa di un pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile, spazio non vi è alcuno per l’invocabilità dell’art. 1226 c.c.

Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno esista, indicando le ragioni del proprio convincimento.

Ciò vuol dire che, nel caso di danno patrimoniale consistito nella perduta disponibilità di un bene, il ricorso alla liquidazione equitativa in tanto è ammissibile, in quanto sia certo (per essere stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato) che sia stato sostenuto un esborso per procacciarsi utilità sostitutive di quella perduta.

La facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige quindi due presupposti:

  • in primo luogo, che sia concretamente accertata l’ontologica esistenza di un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che non può essere assolto semplicemente dimostrando che l’illecito ha soppresso una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di sfruttamento economico;
  • in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) di una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e non già dalla negligenza della parte danneggiata nell’allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l’entità del danno.

Come rilevato nella relazione, infatti, la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. è consentita quando all’esito dell’istruttoria il danno risulti certo nella sua esistenza, ma incerto nella sua consistenza.

Ora, la perduta possibilità di godere d’un bene immobile potrebbe in teoria costituire tanto un danno patrimoniale, quanto un danno non patrimoniale.

Tuttavia nel caso di specie un danno patrimoniale da mancato godimento dell’immobile non risulta non solo analiticamente dedotto, ma nemmeno indicato dalla Corte d’appello.

In particolare, la sentenza impugnata non riferisce se tale pregiudizio patrimoniale sia consistito – ad esempio – nei costi sostenuti per alloggiare altrove, ovvero nella perdita di canoni di locazione. Manca, dunque, il presupposto primo per il ricorso alla liquidazione equitativa, ovvero l’esistenza certa del danno.

Ove, poi, la Corte d’appello avesse inteso liquidare in via equitativa un danno non patrimoniale da mancato godimento dell’immobile, vi sarebbe da rilevare che anche tale pregiudizio oltre a non risultare analiticamente e tempestivamente allegato, non sarebbe risarcibile, in quanto il fatto illecito non costituisce reato e non ha leso interessi della persona costituzionalmente garantiti: non ricorre dunque alcuna delle condizioni richieste dall’art. 2059 c.c. per la risarcibilità del danno non patrimoniale, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), le quali hanno altresì stabilito, nella medesima sentenza appena indicata, che il mero disagio o fastidio non costituisce un danno risarcibile, in mancanza dei requisiti richiesti dall’art, 2059 c.c.

Le osservazioni che precedono non consentono di condividere le osservazioni svolte dalla controricorrente nella propria memoria, tutte incentrate sulla esistenza di una prova attendibile dell’esistenza del danno da mancato godimento dell’immobile. E tuttavia, per quanto detto, nel caso di specie del danno (patrimoniale e non patrimoniale) da mancato godimento dell’immobile mancava, prima ancora che la prova, la sua deduzione in giudizio e la sua risarcibilità.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, 2 febbraio 2017 n. 4534