L’associazione spinge per un limite ai diritti di voto e un modello di governance simile alle ex casse di risparmio, con una cooperativa al timone della quotata. Ma l’esecutivo Renzi potrebbe tirare dritto

di Luca Gualtieri

La trattativa tra governo e Assopopolari entra nella fase più calda e la contenibilità delle future società per azioni è il punto focale della partita. L’associazione di categoria presieduta da Ettore Caselli è al lavoro su un doppio fronte: da un lato tenere aperto il tavolo con l’esecutivo per addolcire gli aspetti più indigesti del decreto Renzi-Padoan, dall’altro lato mantenere unita la compagine delle banche, che si mostra sempre meno coesa al proprio interno.

Gli istituti di maggiori dimensioni avrebbero infatti già digerito la mossa di Palazzo Chigi e si starebbero preparando all’imminente giro di valzer delle aggregazioni. Al contrario, le popolari medio-piccole potrebbero decidere di puntare i piedi e adire le vie legali per difendere l’attuale modello di governance. Da questo punto di vista le strade percorribili sono molteplici, dal ricorso alla Corte Costituzionale al referendum abrogativo, anche se per il momento la palla resta saldamente in mano ad Assopopolari, che tra oggi e domani dovrebbe tirare le fila del lavoro svolto finora. Caduta l’ipotesi del modello ibrido, l’obiettivo dell’associazione è limitare la contendibilità delle future spa, spingendo per l’introduzione di un tetto al diritto di voto al 3-5%. Questa soglia permetterebbe non solo di sbarrare la strada a eventuali raider, ma anche di favorire la stabilizzazione della governance attorno a un unico soggetto. Secondo quanto risulta a fonti accreditate, questo nuovo centro di gravità potrebbe essere una cooperativa partecipata dalle principali istituzioni del territorio e dagli stessi azionisti forti della banca in base a un modello simile a quello previsto dalla legge Amato per le ex casse di risparmio. La formula più lineare per arrivare a questo obiettivo sarebbe lo scorporo delle attuali popolari tra azienda bancaria quotata e, per l’appunto, cooperative che resterebbero azioniste della spa e potrebbero assumere la forma giuridica di fondazioni. Anche se questi nuovi enti dovessero sottostare al limite di possesso azionario, formerebbero in ogni caso il perno della nuova governance, specie se alleati con gli altri soci forti della banca, come imprenditori o fondazioni. Il modello piace già a due-tre presidenti di grandi popolari. Come Gianni Zonin, numero uno della Popolare di Vicenza, che ne ha parlato pubblicamente in più occasioni. Senza dimenticare che un progetto di questo genere era stato proposto un paio d’anni fa da Andrea Bonomi alla Banca Popolare di Milano . Oggi in aggiunta ci sarebbe una ragione politica in più per scegliere questa via: la creazione della cooperativa non quotata permetterebbe alle principali ex popolari di restare iscritte ad Assopopolari ed evitare così che l’associazione ne esca profondamente ridimensionata o scompaia del tutto.

Ma quale potrebbe essere l’esito della trattativa? Palazzo Chigi non sembra intenzionato a fare grandi sconti alla categoria, ma potrebbe lasciare margini di manovra ai singoli istituti. Non tanto agendo sul testo del decreto, che non dovrebbe subire variazioni minimali, ma permettendo alle banche di intervenire sugli statuti con quorum inferiori rispetto a quelli attuali. Limitazioni al diritto di voto e altre formule anti-scalata potrebbero insomma essere direttamente sottoposti al vaglio delle assemblee, previo assenso della Vigilanza nazionale ed europea. Ma anche in questo caso, suggerisce qualcuno, non è il caso di farsi troppe illusioni. (riproduzione riservata)