Il nuovo presidente propone un intervento fondato sull’emersione della parte di pensione non collegata ai contributi versati. Portando come esempio di iniquità i trattamenti Inpdai. Ma le cose da fare sono ben altre

di Pier Luigi Piccari

Il professor Tito Boeri, neopresidente dell’Inps, ha affrontato la primavera partecipando venerdì 20 marzo alla trasmissione Otto e mezzo e non ha perso l’occasione per fare l’annuncio di una prossima riforma. In particolare, la sua è una proposta di riforma organica di assistenza e previdenza da presentare al governo entro giugno, nell’ambito della quale ha sottolineato come il problema principale in Italia sia in questo momento la difficoltà in cui si trovano le persone di 55-65 anni che hanno perso il lavoro ma sono ancora lontane dalla pensione; per costoro bisognerebbe prevedere una sorta di reddito minimo e reperire circa 1,5 miliardi.

L’eterna confusione tra assistenza e previdenza torna ad affliggere anche l’anima del riformatore Boeri, quando dice che potrebbero essere trovate risorse tra le pensioni più alte, nelle quali c’è un divario tra quanto si è versato con i contributi e quanto si percepisce come pensione retributiva.

Il neopresidente Inps ha precisato che oggetto di intervento sarebbe soltanto quella parte delle prestazioni non giustificata dai contributi versati e cioè la differenza fra le pensioni virtuali, calcolate con il sistema contributivo, e quelle attualmente percepite in base al sistema retributivo. In sostanza, a legittimare tali tagli delle pensioni sarebbero innovativi principi di equità distributiva e intergenerazionale, senza particolare attenzione alle questioni di retroattività di una legge di intervento in tal senso. E dando in pasto al pubblico televisivo l’esempio delle pensioni dei dirigenti industriali già assicurati Inpdai, che, per il disavanzo apportato da tale gestione all’Inps, sarebbero pagate dai lavoratori dipendenti. Ecco invece le vere riforme da fare.

1) Assistenza e previdenza vanno separate così. L’attuale sistema Inps soffre invece di iniquità strutturali ben più profonde, conseguenti all’accumularsi dei diversi fondi di categoria che hanno apportato tutto il peso delle differenze dei trattamenti e dei loro disequilibri, senza che si sia voluto distinguere tra assistenza e previdenza e senza che lo Stato ne assumesse il conseguente peso. Qualche esempio? Oltre all’ex Inpdai citato da Boeri, il Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) è costretto a sostenere con il suo avanzo di gestione le pensioni erogate da altri fondi (Fondo Trasporti, Elettrici, Telefonici), per i quali le statistiche registrano valori medi ben superiori a quelli del fondo base. Inteso in senso stretto, è costretto a sostenere con il suo avanzo di gestione le pensioni erogate dagli altri fondi, per i quali le statistiche registrano valori medi ben superiori a quelle erogate dal fondo base: una solidarietà distorta vuole che alla fine i poveri paghino per i più ricchi! Se si guarda all’insieme più ampio dei fondi gestiti dall’Inps, anche qui i risultati disegnano un panorama di squilibri: le gestioni pensionistiche Ago (Gestione enti creditizi, Esercenti attività commerciali, Artigiani, Agricoltori) sono tutte in perdita a fronte dei risultati positivi della sola Gestione Parasubordinati e altrettanto avviene per quelle sostitutive dell’Ago (Fondo Volo, Fondo Spedizionieri doganali, Fondi Ffss, Poste Italiane eccetera). La storia del passaggio di Ferrovie dello Stato e Poste Italiane all’Inps va approfondita per comprendere, assieme alle conseguenze della fusione con l’Inpdap, quali oneri latenti il regime della ripartizione abbia comportato all’atto del passaggio dallo Stato all’Inps di quei larghi insiemi di attivi e pensionati: anche qui lo Stato, precedente datore di lavoro, avrebbe dovuto assumerne gli oneri in modo trasparente. Per la popolazione Inps il passaggio al contributivo avrebbe dovuto segnare comunque l’occasione dell’unificazione delle diverse misure della contribuzione, forse con qualche prospettiva per la diminuzione del costo complessivo del lavoro: ma allora perché devono coesistere aliquote contributive tanto diverse (lavoratori dipendenti 33%, artigiani 21,3%, commercianti 21,39%, parasubordinati dal 18 al 27% a seconda della coesistenza di altra forma di previdenza)? Se il sistema contributivo nella sua logica di fondo si sostanzia in una forma di risparmio assicurativo obbligatorio, non si vede perché debbano sopravvivere tali differenze e perché su tali differenze debbano gravare le conseguenti ingiustificate solidarietà.

2) Un’età minima d’uscita per chi è al 100% contributivo. Tra le tante riforme auspicate, deve trovare spazio un’attenta indagine che dia ai contributi versati la certezza della misura di quanto accumulato per il futuro e la coerenza con quanto spettante per la pensione, distinguendo i costi di natura assistenziale (che pesano in modo differenziato tra le diverse categorie) da quelli strettamente previdenziali, riportando alla fiscalità il loro onere. I processi di capitalizzazione dei contributi versati andrebbero peraltro rivisitati nella loro necessaria coerenza logica. Da un lato lo Stato oggi lucra la differenza tra tasso di crescita nominale del pil riconosciuto all’assicurato e tasso corrente del debito pubblico risparmiato per le contribuzioni versate in Tesoreria, dall’altro nega l’adeguamento all’inflazione, quando nei coefficienti di trasformazione è previsto un certo tasso di crescita del costo della vita. Occorre essere precisi sui riferimenti delle misure dei tassi di valutazione sia del monte contributivo sia dei coefficienti di trasformazione. E questi ultimi andrebbero aggiornati e distinti, anche in relazione al sesso, in modo più equo e attento alla coerenza attuariale tra capitale accumulato e pensione. Tutte queste distorsioni, ancorché giustificabili con esigenze di cassa, mettono in crisi l’equità propria del sistema retributivo e conducono all’evasione contributiva, lasciando peraltro adito a sospetti anche sulla credibilità futura del sistema complementare.

Infine una domanda che riguarda gli interventi dilatori dell’età della pensione di anzianità: nel caso delle pensioni contributive, quindi erogate a fronte di un capitale già accumulato, perché non riconsiderare la questione dell’età minima quale utile strumento di spinta all’uscita dal lavoro dipendente verso nuove attività e di sostituzione tra generazioni? Di fatto, la lotta alla pensione di anzianità non si giustifica più in un pieno e coerente sistema contributivo. Quanto è stato accumulato dal singolo correttamente deve essere tradotto in quanto spettante, poco o tanto che sia, soltanto in relazione all’età raggiunta e a un minimo di anzianità accumulata.

Ecco, professor Boeri: è tempo che si affronti il problema della riforma del welfare dell’Italia senza confondere le idee del pubblico televisivo con il dettaglio delle pensioni dei dirigenti industriali. (riproduzione riservata)