L’informatizzazione sempre più spinta richiede non solo una formazione diversa degli addetti, ma anche adeguamento dei processi ed esternalizzazioni. È una sfida pure per lo Stato e i vigilanti

di Paolo Savona

Il mondo delle banche è in agitazione. Premuti dalle contingenze geoeconomiche, dalle imprese insoddisfatte e dalle stesse autorità che le hanno messe in difficoltà con le loro scelte politiche e regolamentari non riescono a trarre dall’attività tradizionale di credito alla produzione un rendimento del capitale a livelli comparativi con il passato e con gli investimenti alternativi; si sono perciò dedicate alla speculazione finanziaria snaturando la loro funzione di ancelle dello sviluppo.

The Economist e l’European House Ambrosetti hanno di recente pubblicato ricerche sul futuro delle banche, con particolare attenzione alla rivoluzione digitalizzata dei loro servizi; la seconda è stata realizzata con la consulenza dell’ex ministro dell’economia e membro del Direttorio della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni e ha segnalato il ritardo delle banche italiane nel processo di informatizzazione dell’attività di gestori dei pagamenti e di valutatori del merito di credito. In esse si afferma che, se le banche non coglieranno l’opportunità dell’informatica per colmare questo divario, il loro futuro potrebbe essere compromesso.

Date l’attuale legislazione vincolante, l’eredità organizzativa del passato e la superiorità delle offerte alternative di gestione dei pagamenti e di valutazione del merito di credito, non sembra percorribile per le banche italiane la strada di incorporare le innovazioni informatiche nella loro attività producendole in proprio, perché sarebbe soluzione più costosa e meno efficiente rispetto alle prestazioni che già danno i colossi del settore, i quali gestiscono quote crescenti del sistema dei pagamenti, e le piccole e medie imprese elaboratrici dei cosiddetti «big data», che forniscono valutazioni ottime rispetto a quelle che può produrre qualsiasi banca (almeno nelle forme oggi esistenti). Tuttavia la sopravvivenza delle banche di deposito e credito è necessaria per consentire il controllo di questo aspetto fondamentale della stabilità economica, nonché sociale, in un settore come quello bancario dove le scritture contabili sono il suo prodotto finale, facilmente producibile e falsificabile come la storia ci insegna. Di conseguenza occorre decentrare le attuali funzioni delle banche, riorganizzando in profondità la loro attività per farla divenire tutto cervello e capacità di seguire il dinamismo dell’evoluzione dell’offerta di servizi informatici.

Avvalendosi però di servizi esterni nasce il problema che le banche e le autorità perdono le informazioni necessarie per condurre bene i rispettivi compiti. Spetta quindi allo Stato ricondurre a unità conoscitiva la gestione dei pagamenti – inclusa la loro sicurezza, problema centrale della rivoluzione informatica – al fine di permettere ai dirigenti bancari di disporre delle informazioni asimmetriche rispetto all’operatore ordinario di mercato per scegliere a chi dare credito e a chi negarlo, senza dipendere totalmente dalle valutazioni esterne o, quanto meno, esserne in condizione di verificare i giudizi. Non vedo altra soluzione della nascita di un’authority che svolga l’importante funzione di centrale di tutti i pagamenti e metta a disposizione delle banche, in condizioni di sicurezza, il frutto della sua attività. Lo spostamento dell’organizzazione non è ottenibile riducendo il personale come finora fatto, ma spostandolo dalle funzioni di sportello a quelle di centri di prospezione e di acquisto di servizi digitalizzati innovativi e di valutatori di valutazioni altrui; ciò richiede un innalzamento del livello di professionalità degli impiegati esistenti e la loro integrazione con giovani iperspecializzati, destinati a raccogliere e portare avanti il testimone della staffetta tra la vecchia e la nuova organizzazione bancaria. È improbabile che sia possibile farlo riducendo il personale.

Ma per fare ciò occorrono amministratori di banca che siano veri e propri imprenditori, dato che il passaggio dalla vecchia gestione contabile a quella nuova informatizzata probabilmente non costa meno (non esistono però studi appropriati) e, quindi, non possa essere la soluzione sperata, indicata nelle due ricerche, per innalzare il rendimento del capitale bancario. Dipenderà quindi dalla capacità degli amministratori di combinare capitale e lavoro, acquistando o producendo tecniche informatiche per ottenere un prodotto che soddisfi la domanda di credito e, più in generale, di servizi finanziari dei risparmiatori e delle imprese. Sembra banale, quasi elementare, ma non lo è per un prodotto altamente fungibile come il servizio bancario e, quindi, più esposto alla concorrenza di un qualsiasi prodotto industriale innovativo. Le banche sono attualmente esposte a rischi di disintermediazione molto gravi, soprattutto perché sottoposte a regolamentazioni macro o microprudenziali volte introdotte per proteggere i depositanti e l’economia in generale, ma di fatto per ridurre le responsabilità degli organi di vigilanza bancaria e allontanare il rischio di un intervento pubblico con oneri sui contribuenti imponendo regole di condotta penetranti e livelli di capitale elevati. Nell’insieme ciò che si va facendo non è spingere le banche a finanziare la crescita delle imprese e dei consumi, ma ridurre i rischi assunti. Le maggiori regole diffondono però forme di shadow bank, banche ombra, che non sono ancora sottoposte agli stessi vincoli delle «solar» bank, banche alla luce del sole. Gli economisti ben sanno che, fatta una regola, il mercato è in condizione di aggirarla prima e dopo, quindi il movimento costante è verso i settori meno regolati. È un eterno gioco di inseguimento tra cane e lepre che non avrà mai fine e che sarà sempre più arduo da praticare per via degli sviluppi informatici. Bit coin, la moneta puramente elettronica inventata da un giapponese, la M-pesa nata in Kenya da un’affiliata di Vodafone e diffusasi soprattutto in Africa (pesa è il termine locale della moneta) e altre invenzioni di numerari non tradizionali, nonché fuori dal controllo delle autorità monetarie, vengono indicati come esempi che le banche devono seguire per adeguarsi ai ritmi dell’evoluzione digitale della loro attività al fine di non perdere clientela e innalzare il rendimento del loro capitale; sovente, però, non si valutano le conseguenze macroeconomiche e sull’intero sistema bancario della rivoluzione digitale. Alla luce di ciò viene il dubbio che la banca sia destinata a divenire un’organizzazione obsoleta, se già non lo sia diventata. (riproduzione riservata)