È un primo passo, condivisibile sotto molti aspetti, il proposito annunciato da Matteo Renzi di un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie. Non solo perché il premier ha avuto l’astuzia politica di indicare come specifica finalità di questo maggior gettito il taglio del 10% all’Irap, imposta che grava essenzialmente sul sistema delle imprese manifatturiere. Ma soprattutto perché così si realizza un parziale riequilibrio di un’anomalia fiscale tutta italiana per cui finora il prelievo sui redditi da capitale finanziario ha sempre goduto di uno straordinario e distorcente privilegio rispetto a quello sui redditi da lavoro e da impresa.

Nsegue dalla prima on così accade nei principali paesi sviluppati a cominciare dai più importanti della stessa Unione europea. Quindi ha fatto bene il premier a sdrammatizzare l’impatto pubblico di questa novità sottolineando che, con l’aumento dal venti al ventisei per cento dell’aliquota, l’Italia altro non fa se non allinearsi a quella che è la media europea del prelievo in materia. Valore, fra l’altro, che non risulta aver provocato nei paesi dove è già in vigore chissà quali terremoti non solo nella propensione al risparmio dei singoli cittadini ma neppure sul mercato dell’allocazione dei capitali da parte dei grandi operatori finanziari. Certo, come tutte le novità tributarie, anche quest’ultima potrà causare qualche sbandamento in prima battuta

ma destinato comunque a riassestarsi una volta assorbito il primo shock. Vale perciò la pena di riflettere se, una volta assorbito questo colpo, non sia il caso di affrontare in modo più organico e strutturale il problema dei modelli fiscali da applicare a un’economia di cui tutti vantano e lodano la vitale caratteristica manifatturiera che poi però sul piano tributario continuano a considerare come la principale pecora da tosare. Siamo franchi in proposito: non è che con un aumento del sei per cento sulle rendite finanziarie o sui cosiddetti “capital gains” può considerasi chiusa e risolta la partita del profondo divario che continuerà a persistere fra trattamento fiscale dei redditi da capitale e redditi da lavoro o da impresa. Obiettano alcuni critici che la progettata aliquota del ventisei finirà per superare di buoni tre punti quella minima al ventitré delle dichiarazioni Irpef. Cosicché i più danneggiati dalla novità sarebbero i piccoli risparmi dei lavoratori a basso e bassissimo reddito. Quello di usare i piccoli risparmiatori come scudi finanziari a protezione degli interessi dei grandi speculatori è un pessimo e antico vezzo dei mercati capitalistici e non soltanto in Italia. Tuttavia è un fatto che, aldilà del fine magari strumentale da parte di alcuni, questa obiezione mette in luce un punto critico reale. Per il quale, comunque, i rimedi diventano facilmente praticabili purché si entri in una logica di riforma più equilibrata della materia. Che sia al ventitré o al ventisei per cento il prelievo sulle rendite finanziarie agisce come una classica “flat tax” ovvero è uguale per tutti, per chi incassa dieci euro ovvero un milione di euro. Ciò significa che questa imposta contraddice il principio costituzionale della progressività tributaria. In alcuni paesi anglosassoni l’inconveniente è risolto con l’obbligo di inserire i guadagni da capitale nell’annuale dichiarazione dei redditi: un sistema che garantisce in modo puntuale la progressività del prelievo ma che si regge anche sul piccolo, non trascurabile, particolare che le aliquote sui redditi complessivi sono, per esempio negli Usa, ben più basse di quelle vigenti in Europa e soprattutto in Italia. Dove l’adozione “sic et simpliciter” del metodo americano potrebbe comportare aumenti del prelievo questi sì in grado di sconvolgere il mercato del risparmio. Una soluzione intermedia e meno traumatica per riaffermare il principio della progressività potrebbe essere quella di mantenere la tassazione separata delle rendite finanziarie ma bilanciandone le distorsioni attraverso la definizione di aliquote diverse secondo la dimensione dei redditi incassati nell’anno. In tal caso è ovvio che l’aliquota più bassa dovrebbe attestarsi al ventitré per cento come accade per gli altri cespiti reddituali risolvendo così in radice la questione della tutela dei risparmiatori più piccoli. In questa cornice occorre però considerare che diventerebbe indispensabile porre riparo a un’altra distorsione del sistema vigente: il privilegio della tassazione al 12,50 per cento mantenuta a favore dei titoli di Stato. Va bene che per quest’ultimo un aumento si tradurrebbe in una sorta di partita di giro contabile, ma non così per quanto riguarda l’equità del prelievo dalle tasche dei contribuenti. In conclusione, il governo di Matteo Renzi ha fatto benissimo a compiere questo primo passo per il riequilibrio dell’imposizione fiscale fra rendite finanziarie e altre fonti di reddito, in particolare da lavoro e da impresa, ma il contrappasso di questa mossa è che, sciogliendo un nodo, ne ha reso più evidenti altri anche più intricati e complessi da maneggiare.