di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Il colosso americano del risparmio gestito BlackRock è diventato il secondo azionista diIntesa Sanpaolo con il 5% del capitale, ma in portafoglio ha anche partecipazioni rilevanti inAtlantia, Azimut e Telecom.

E non si tratta di un caso isolato. Da quando il sentiment sull’Italia è cambiato, molti investitori esteri hanno riscoperto il listino milanese, rimasto indietro rispetto alle altre borse europee. Mentre gli italiani latitano. «Dovrebbe aumentare il peso degli italiani perché su una capitalizzazione della borsa italiana di 500 miliardi di euro, i fondi italiani che investono in azioni italiane rappresentano circa 10 miliardi, mentre i fondi esteri, inclusi i grandi operatori istituzionali, investono in Italia in maniera significativa», dice Sergio Albarelli, senior director Sud Europa e Benelux di Franklin Templeton e presidente del comitato corporate governance di Assogestioni. Ma in generale rispetto ai mercati esteri di strada da recuperare ce n’è ancora tanta visto il peso limitato che hanno i cosiddetti Big money, grandi fondi di investimento, nella borsa di Milano, dove le public company ancora scarseggiano.

Uno studio di Ambrosetti ha calcolato che gli investitori istituzionali pesano sulla borsa italiana per il 41%, contro il 62% della Francia e il 64% della Germania. Eppure la loro presenza può essere positiva anche sul piano della governance, in quanto possono stimolare le società investite a una maggiore trasparenza. «I nostri gestori prima valutano un’azienda sui parametri economici, quali tassi di crescita e solidità dell’attività, poi analizzano la corporate governance: a partire dal numero di consiglieri indipendenti, ma anche le politiche di remunerazione del management, e l’attenzione alla creazione di valore per tutti gli azionisti», sottolinea Albarelli. Anche se in passato molti gestori hanno preferito manifestare il proprio dissenso vendendo i titoli in loro possesso, ora la situazione sta cambiando. E questa novità è portata avanti proprio dai fondi esteri. Come dimostra un’analisi sui voti in assemblea registrati nell’ultimo biennio. Ossia da quando l’assemblea può esprimere un parere proprio sulla modalità di retribuzione dei manager. Infatti dal 2012 le policy sui compensi e le remunerazioni dei manager delle società quotate sono sottoposte al gradimento dei soci almeno 21 giorni prima dell’assemblea e poi vengono approvate dagli stessi nel corso dell’incontro annuale con un voto, che però non è vincolante in Italia. E proprio gli istituzionali sono molto attenti alla politica di remunerazione anche per quanto riguarda il meccanismo che lega bonus e risultati.

E da quando possono dire la loro, anche solo a titolo consultivo, si sono fatti sentire. Come dimostra un’indagine di Frontis governance per MF-Milano Finanza, frutto di un’analisi, condotta sui verbali di assemblea, dei risultati delle votazioni sulle politiche di remunerazione nel 2012 e nel 2013. «I voti contrari vengono quasi esclusivamente da azionisti istituzionali esteri, che rappresentano mediamente l’88% delle minoranze votanti nelle assemblee italiane (il 95% nel Ftse Mib e l’81% nelle società a media capitalizzazione). Qualche voto contrario è riferibile anche a piccoli azionisti privati italiani, che però rappresentano circa lo 0,25% delle minoranze votanti, mentre praticamente nessun voto contrario è riferibile a istituzionali italiani. In particolare, l’atteggiamento diffuso delle sgr italiane è di votare sempre a favore o non votare sui punti all’ordine del giorno che non siano la propria lista per il rinnovo dei cda», dice Sergio Carbonara di Frontis governance. Dal punto di vista delle singole società, tra le blue chip il maggiore dissenso complessivo si è registrato nei confronti di Fiat, Fiat Industrial e Telecom Italia. Conferma Carbonara: «Qui il maggiore dissenso complessivo dipende dal minor peso degli azionisti strategici in queste società (30% in Fiat, 32,8% in Fiat Industrial e 22,4% in Telecom). Nelle realtà che presentano un azionariato più concentrato, i voti contrari degli azionisti indipendenti sono stati anche maggiori, ma sul totale dei voti hanno pesato meno». Per esempio quando si analizza soltanto il voto delle minoranze si scopre che hanno espresso un voto contrario il 92% dei soci di minoranza in Ferragamo, l’81% in Mediolanume il 78% in A2A. Continua Carbonara: «I voti contrari alle remunerazioni Fiat e Fiat Industrialsono principalmente dovuti al piano di incentivazione di Marchionne, che prevede l’assegnazione di azioni senza alcun obiettivo di performance da raggiungere». Un altro caso in cui si contano molti voti contrari è quello di Yoox. «Credo che la politica di retribuzioni di Yoox non sia piaciuta alla maggioranza degli istituzionali a causa degli eccessivi piani di stock option per il ceo. Nel 2013, Federico Marchetti ha realizzato 23,55 milioni di euro dall’esercizio delle opzioni legate ai vari piani di incentivazione, in pratica è stato il ceo italiano più pagato dopo Marchionne, anche se per Marchetti almeno sono previsti dei criteri di performance per l’assegnazione di queste opzioni», aggiunge Carbonara. Che precisa: «In Yoox gli azionisti di maggioranza pesano solo per il 27% ed è anche per questa ragione che il dissenso appare più accentuato. Se invece si considerano solo i voti dei soci di minoranza, il livello dei contrari è stato del 54%, non tra i più elevati». Tra le public company ci sono anche situazioni dove invece gli azionisti promuovono a larga maggioranza le politiche retributive. Sottolinea Carbonara: «In altri casi in cui gli azionisti di maggioranza pesano relativamente poco come Intesa Sanpaolo (di cui gli azionisti di controllo posseggono il 22,2%), Azimut (al 24%), Eni, Finmeccanica, Generali, Snam, Terna,Enel (tutte più o meno con il 30%), o Prysmian dove è quasi tutto flottante tranne le azioni del management, i voti degli azionisti indipendenti sono stati, invece, in maggioranza favorevoli».

Nelle tabelle in pagina si riportano le percentuali di voti favorevoli e contrari sul totale dei votanti e quelle invece riferite alle sole minoranze. Nelle società a maggiore capitalizzazione i contrari sono diminuiti, nel 2013, dal 36 al 31%, probabilmente a causa del maggiore dialogo instaurato da molti dei principali emittenti con gli azionisti dopo i risultati del 2012. Al contrario, nelle società a media capitalizzazione i contrari e astenuti nel 2013 sono aumentati dal 32 al 35%. Quale indicazione si può trarre per la nuova tornata di assemblee? Senza dubbio che gli istituzionali chiedono alle quotate italiane una maggiore chiarezza sulle buonuscite per i manager e sul legame tra bonus e obiettivi gestionali. (riproduzione riservata)