Federico Fubini

P er certi aspetti, il dettaglio che ha colpito di più è stato quello che mancava: il premier non ne ha parlato. Nei suoi discorsi di presentazione del programma di governo prima al Senato e poi alla Camera, il premier Matteo Renzi non ha pronunciato la parola “privatizzazioni”. Non ha fatto niente né per smentire, né per accreditare un fattore di continuità con il suo predecessore Enrico Letta. E’ il primo governo da molti anni a questa parte che nel presentarsi non ne fa menzione. Sotto la guida dell’ormai ex ministro Fabrizio Saccomanni, l’esecutivo caduto il mese scorso era arrivato ad abbozzare un piano di dismissioni di società pubbliche (o semi-pubbliche) che, negli annunci, doveva valere fino a 12 miliardi. A dire la verità invece si muoveva piuttosto, nel migliore dei casi, nella fascia fra gli otto e i dieci miliardi di euro di ricavi. Ma non importa: forte o debole che fosse, un piano c’era. D a Renzi invece su questo c’è stato un provvisorio silenzio, che però il ministero dell’Economia non ha interpretato come un segnale di stop. Più che un’omissione, in Via XX Settembre quella del premier viene considerata una “dimenticanza”. E che sia sincera o solo diplomatica, una definizione del genere contiene un segnale preciso: con Pier Carlo Padoan come ministro al posto che era stato di Saccomanni, la macchina del Tesoro continua a girare in vista di collocamenti in Borsa e vendite sul mercato di un certo numero di attività.

Rivediamo il timing previsto. Si dovrebbe partire in primavera con il collocamento in Borsa e la cessione del 40% di Fincantieri. La società successiva nella lista delle privatizzazioni poi avrebbe dovuto essere la Sace, la società di assicurazione all’export, ma su questo dossier già nella coda del governo Letta si erano aperte controversie che lasciavano prevedere uno slittamento a dopo l’estate. Il primo problema, per la verità poco discusso, è il fatto che in realtà Sace è già stata venduta dal Tesoro. Dal 2012 il nuovo azionista è la Cassa Depositi e Prestiti, la quale conta sì ben sette esponenti dello stesso Tesoro in consiglio d’amministrazione e ne è sì controllata all’80% (l’altro 20% è in mano alle Fondazioni). Ma resta il fatto che lo Stato, ai termini del codice civile, ha già venduto Sace. La vendita di una quota della stessa azienda da parte di Cdp, quanto a questo, non potrebbe contare come “privatizzazione” e lo Stato non dovrebbe poter incassare due volte un ricavo dalla vendita dello stesso bene. Per aggirare questo scoglio, in termini contabili, il governo Letta aveva pensato che la Cdp poteva corrispondere al Tesoro suo azionista un dividendo straordinario una volta che la Cassa si fosse disfatta di una quota di Sace. Così il governo avrebbe il doppio incasso: prima dalla vendita a Cdp e poi da quella da parte di Cdp a terzi. Ammesso che ciò sia formalmente corretto, un’operazione del genere rischia di creare incentivi controversi. Il Tesoro sa che può moltiplicare le entrate della cessione di un’attività, incassando più del valore dell’attività stessa, se la fa transitare da Cdp per poi farsi consegnare da questa un extra-dividendo a seconda vendita avvenuta. Il rischio è evidente: potrebbe soffrirne il patrimonio della Cassa depositi e, di conseguenza la sua capacità di sostenere l’economia. La (ri)vendita di Sace presenta poi un ulteriore problema, perché la società è sotto pressione dal governo perché garantisca sempre maggiori operazioni di imprese italiane. Anche oltre ciò che la sua forza patrimoniale suggerirebbe. Per garantire queste operazioni nel modo migliore, Sace chiede che il governo stesso la garantisca finanziariamente. Ma anche su questo non c’è ancora accordo, tra l’altro perché una garanzia pubblica a Sace rischia di attrarre ancora una volta la censura di Bruxelles in quanto aiuto di Stato. Più probabile dunque che il Tesoro cerchi di dare la precedenza ad altri dossier. Si lavora all’idea della quotazione di Poste, con conseguente cessione di un 40% per un incasso stimato (forse con ottimismo) fra i 4 e i 4,8 miliardi, al quale segue il progetto di vendere altre quote nel 2015. Ancora più concretamente, si continua a preparare la vendita del 49% di Enav, l’ente del controllo aereo che il Tesoro di Saccomanni sperava garantisse proventi per circa un miliardo. Concreto poi è anche il progetto di vendere una quota sotto il 50% di Cdp Reti, la scatola societaria dentro la quale la Cassa Depositi e Prestiti ha raccolto Snam e il gestore Terna. Anche in questo caso il Tesoro beneficerebbe dunque di una doppia entrata dalla cessione dello stesso bene, perché ha già “privatizzato” le società di rete elettrica e del gas cedendole a Cdp. In questo caso però l’effetto è in parte attenuato dal fatto che Cassa Depositi ha messo entrambe le aziende in una holding e formalmente sarebbe quest’ultima ad andare sul mercato. In questo caso, chissà quanto seriamente, State Grid China avrebbe già segnalato un proprio potenziale interesse. Tempi più lunghi invece per l’Eni. Il progetto prevede che il gruppo dell’energia riacquisti azioni proprie in misura sufficiente a far salire la quota del Tesoro dal 30% al 33%, perché poi lo Stato possa vendere un altro 3% senza in teoria perdere il controllo in assemblea. Ma un’operazione così complessa non sembra fattibile entro fine anno. Quali che siano i dettagli e la solidità di questa o quella cessione, restano però almeno due domande di fondo. La prima riguarda Matteo Renzi, perché il neo-premier potrebbe voler cambiare o allungare la lista delle società pubbliche in vendita. Da sindaco di Firenze ha già ceduto (alle Ferrovie dello Stato) un ramo d’azienda dell’Ataf, la società comunale di trasporti pubblici. Nei suoi ultimi mesi a Palazzo Vecchio poi il neo-premier ha anche spianato la strada alla quotazione a Piazza Affari della Mukki, la centrale del latte di Firenze. È dunque possibile che Palazzo Chigi, per marcare la discontinuità con Letta, ora inizi a spingere verso la dismissione di altre società di servizi locali in Italia. L’altro interrogativo irrisolto del piano di privatizzazioni ereditato dal Tesoro è però anche più radicale, perché riguarda la sua utilità. Perché vendere una tantum e in modo più o meno solido beni per 8 o 10 miliardi – meno dell’1% del Pil – quando i vincoli europei chiedono riduzioni del debito di dimensioni almeno triple su ciascuno dei prossimi vent’anni? Telos A&S, uno studio indipendente di relazioni istituzionali e consulenza, su questi aspetti raccoglie da mesi lo sconcerto di diversi grandi investitori esteri. Fra loro, riferisce Marco Sonsini di Telos A&S, è diffuso uno “scetticismo di fondo sulla reale efficacia del piano dismissioni” e sulla sua “razionalità economica” per la riduzione del rapporto fra debito e Pil. L’esperienza dimostra che il debito potrà scendere solo se l’Italia sarà in grado di intervenire sugli ingranaggi del sistema che ne frenano la crescita. «La più grande preoccupazione degli investitori – spiega Sonsini – è che il debito divenga insostenibile non per la sua dimensione in termini assoluti ma per la stagnazione dell’economia». Fare un po’ di cassa in modo più o meno convincente può far guadagnare qualche tempo. Ma se Renzi non lo userà per mettere il Paese su tutt’altro sentiero di crescita, i grandi investitori globali non sono pronti a dargli più credito che ai suoi predecessori. Il piano di riacquisto delle azioni Eni da parte del Tesoro è stato rinviato ad un momento più conveniente