di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Tassare le rendite finanziarie? Si può fare ma occorre maneggiare con cura l’argomento. Perché, nella migliore delle ipotesi, l’aumento dell’aliquota su Bot e Btp (ventilata dal vicepresidente del Consiglio, Graziano Delrio), per allinearla agli standard europei, sarebbe solo un pannicello neppure troppo caldo per i conti dello Stato: non colpirebbe gli investitori istituzionali che detengono la maggior parte del debito pubblico italiano.

In quella peggiore sarebbe addirittura dannosa perché rischierebbe di allontanare i risparmiatori dall’acquisto di titoli di Stato. Con il rischio di replicare il flop della Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziaria introdotta lo scorso anno (si veda articolo a pag. 11). Un bel dilemma per il ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan.

 

Sui titoli di Stato, oggi tassati al 12,5% e per i quali si è parlato di possibile aumento al 20%, «tutti concordano su un punto: aumentare questa aliquota sarebbe nel caso migliore una partita di giro, ma potrebbe anche creare problemi gravi sul finanziamento del debito pubblico», avverte Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica, tra i partiti che sostengono il governo guidato da Matteo Renzi. Senza dimenticare che «un’eventuale modifica della tassazione sui titoli di Stato inciderebbe solo sui singoli investitori, i cosiddetti nettisti, che pesano per una componente modesta dello stock.

Al contrario, non avrebbe alcun effetto per i lordisti, gli investitori istituzionali, perché i loro bond sono tassati fuori dal regime di cedolare secca», dice Maria Cannata, direttore generale del debito pubblico presso il Tesoro. Per questa ragione, «gli effetti sul fronte del gettito sarebbero modesti. Non so invece cosa accadrebbe sul fronte della domanda, considerando che il retail è sensibile a questi aspetti». Non a caso negli anni scorsi proprio il Tesoro, per avvicinare le famiglie ai titoli di Stato, ha lanciato il Btp Italia prevedendo solo per i piccoli investitori un bonus dello 0,4% a chi li mantiene in portafoglio fino alla scadenza. E queste emissioni hanno fatto il tutto esaurito. «Bisogna anche ricordare che è già stata aumentata la tassa sul dossier titoli. Un po’ di cautela non sarebbe male», aggiunge Cannata. In effetti, come emerge da una simulazione (si veda grafico in pagina) su 100 mila euro in Btp, che offrono un tasso del 4,5%, le cedole ammontano a 4.500 euro lordi annui. Con l’attuale tassazione al 12,5%, il risparmiatore paga oggi 562,50 euro di tasse sulle cedole, più 625 euro sui capital gain ipotizzati, per un totale di 1.387,50 euro, considerando anche l’imposta di bollo sui prodotti finanziari, una mini-patrimoniale che da quest’anno è salita allo 0,2%. Se l’aliquota passasse al 20% il conto finale salirebbe a 2.100 euro con un inasprimento di 712,5 euro. Si rischia quindi un crollo della domanda visti anche gli attuali, ai minimi, rendimenti dei Btp e dei Bot. Ma anche se si considerano le azioni e le obbligazioni societarie, gli effetti di un giro di vite sui soli rendimenti di questi strumenti, oggi tassati al 20%, sarebbero modesti per il bilancio dello Stato: «Immaginare, come si sente dire, che esso produca un gettito di 2 miliardi di euro significa pensare che oggi in Italia il risparmio non investito in immobili, partecipazioni qualificate e titoli di Stato ammonti complessivamente a circa 1.500 miliardi di euro», prosegue Ichino.

 

Infatti 2 miliardi di gettito da un incremento del 5% della tassa sulle rendite significa ipotizzare ricavi lordi da azioni e obbligazioni di 40 miliardi di euro; questo, con rendimenti lordi medi di mercato intorno al 3%, significa ipotizzare uno stock di ricchezza privata non investita in titoli di Stato, partecipazioni qualificate e immobili, appunto di circa 1.500 miliardi di euro», prosegue Ichino.

Il primo interrogativo che si pone il senatore di Scelta Civica è questo: «Su quali fonti possiamo basare la supposizione che questo sia effettivamente lo stock dei titoli azionari e obbligazionari italiani cui l’aumento dell’imposta si riferirebbe? Il dato di cui dispongo, da non addetto ai lavori quale sono e fermo al 2008, è 1.238 miliardi (755 in obbligazioni, 483 in azioni): mi sembra improbabile che da allora l’ammontare complessivo sia aumentato». Ma l’interrogativo più preoccupante è un altro: «Alzare le tasse sulle rendite del 5% in un mercato così sensibile come quello finanziario rischia di produrre lo stesso flop che ha prodotto la Tobin Tax, con la quale si pensava di incassare 1,2 miliardi di euro, mentre si sono effettivamente incassati circa 200 milioni. In altre parole: l’effetto principale dell’aumento potrebbe essere quello di allontanare i risparmiatori dalla borsa e spaventare i mercati, con un conseguente aumento dello spread sui titoli di Stato che si mangerebbe tutto il gettito prodotto». Per Ichino «se vogliamo davvero cambiare verso, come dice Matteo Renzi, e far tornare a famiglie e imprese la voglia di spendere e investire, le risorse per la riduzione del cuneo fiscale e contributivo sulle buste paga non possiamo cercarle nell’ennesimo aumento delle tasse. Vanno reperite principalmente con la spending review: basterebbe incominciare con le controllate degli enti locali».

Dall’inizio della crisi sono state introdotte numerose tasse che vanno a colpire i risparmi delle famiglie italiane, inclusa la casa. Proprio venerdì 28 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato la super-Tasi. Il decreto stabilisce che per tutti gli immobili ci sarà una flessibilità dello 0,8 per mille. Quindi le aliquote potranno crescere al 3,3 per mille sull’abitazione principale e all’1,14% sugli altri immobili. Ma a fronte delle nuove tasse non c’è stato un equivalente alleggerimento di quelle che gravano sul lavoro.

Intanto, nella maggioranza dei Paesi europei, esclusa la Germania e la Svezia, si applica una tassazione progressiva ai proventi finanziari come ai redditi. Questo sistema favorisce chi ha redditi più bassi. (riproduzione riservata)