di Paola Valentini

Il risparmio gestito tricolore ha un’occasione unica per rilanciarsi che non va sprecata perché è dal 2000 che in Italia i fondi comuni non attiravano così tanti risparmi come nel 2013. Lo scorso anno la loro raccolta netta ha superato i 45 miliardi di euro, come nell’anno del boom dei titoli Internet, anche se oggi la situazione è lontana anni luce da quella di 14 anni fa, e l’Italia non fa eccezione.

A partire dalle condizioni economiche. La lotta all’elevato debito pubblico e la riduzione dell’indebitamento delle banche hanno di fatto tolto molta liquidità al sistema e alle famiglie dal 2008 in avanti. Al contrario, il 2000 godeva ancora dell’eredità positiva della forte crescita delle borse degli anni 90, di tassi in discesa e di un’economia in ripresa. Elementi che allora l’industria del risparmio gestito non riuscì a sfruttare. Oggi il clima economico è ben diverso, ma malgrado le difficoltà, l’asset management italiano ha tutte la carte in regola per poter continuare sul sentiero di crescita, a differenza del 2000 quando, dopo la raccolta record, di fatto il sistema entrò in crisi sopraffatto dalla concorrenza di obbligazioni bancarie e altri strumenti liquidi.

«È oggi molto più bassa la formazione di risparmio nelle famiglie. Nel 2000 i flussi investiti in attività finanziarie erano prossimi a 120 miliardi di euro, il 4% delle attività finanziarie. Nel 2013 le famiglie, fiaccate dalla lunga crisi economica e dall’aumento della pressione fiscale, hanno investito, secondo le nostre stime, meno di 25 miliardi di euro», spiega Vincenza Di Lorenzo di Prometeia nella newsletter Atlante.

 

Minore risparmio, ma anche minore reddito a causa della disoccupazione in aumento, rende le famiglie italiane oggi molto più povere. «La ricchezza finanziaria delle famiglie, anche se elevata come percentuale del reddito disponibile rispetto ad altre economie sviluppate, si è ridotta del 7% in termini reali dal 2000 al 2012 e il reddito disponibile del 2.5%», aggiunge Di Lorenzo. Inoltre la ricchezza è più concentrata nelle mani di un sempre minore numero di individui. «Alla fine del 2012 il 10% delle famiglie più abbienti possedeva il 46,6% della ricchezza netta, un valore pressoché invariato rispetto al 2000 (il 47,1%) ma la concentrazione, misurata con l’indice di Gini, è aumentata al 64% nel 2012 dal 62.2% del 2000», spiega ancora Di Lorenzo.

In questi anni è sceso anche il numero di sottoscrittori di fondi comuni. «Nel 2000 erano detenuti da circa 9 milioni di individui e rappresentavano il 17% delle attività finanziarie delle famiglie. Gli ultimi dati ci dicono che i sottoscrittori di fondi comuni sono intorno ai 5 milioni e, anche se in crescita nel periodo più recente, il loro peso sulle attività finanziarie delle famiglie si è dimezzato all’8%», sottolinea ancora Di Lorenzo. Nel frattempo sono cambiati i fattori alla base della forte raccolta del 2000 e di quella del 2013 perché allora le borse avevano toccato livelli record grazie alla forte spinta dei titoli tecnologici, la cui bolla scoppiò negli Usa proprio in quell’anno. Il processo di convergenza per l’ingresso nell’euro aveva poi portato a un abbassamento dei tassi di interesse, in primis quelli sui titoli di Stato, che spinse molti a trovare alternative più redditizie nelle azioni. «Nel 2000 si chiuse un percorso, iniziato a metà degli anni 90, di forte crescita dei mercati azionari e di calo dei tassi di interesse, che portò per la prima volta a una maggiore diversificazione dei portafogli finanziari delle famiglie, con una riduzione dei titoli pubblici a favore dei fondi comuni, che avvicinarono le famiglie per la prima volta a strumenti finanziari più rischiosi», aggiunge Di Lorenzo.

Prometeia rileva che nel 2000 i fondi comuni azionari erano quasi il 40% del totale mentre oggi sono il 22%. Una diminuzione causata dalla forte volatilità che ha caratterizzato i mercati negli anni successivi al 2000, che ha causato forti perdite nei portafogli azionari, con il risultato di fare allontanare le famiglie dalle borse. Non a caso in questi anni «sono cresciuti i prodotti multiasset, ovvero bilanciati e flessibili, dal 16 al 22% e, soprattutto, la componente obbligazionaria che, tra alti e bassi, si è portata dal 40% del 2000 a poco meno della metà del mercato italiano alla fine di settembre 2013, ma con meno prodotti tradizionali e un maggiore peso di emergenti, globali e corporate», sottolinea ancora Di Lorenzo.

Ma il fenomeno più eclatante degli anni 2000 è stata la progressiva uscita dei risparmiatori dai fondi comuni a favore delle obbligazioni bancarie, societarie e dei conti di deposito ad alto rendimento, grazie a tassi in aumento dopo l’inizio della crisi post 2008. «D’altra parte è cresciuta la domanda di strumenti di risparmio gestito da parte degli investitori istituzionali di medio/lungo termine, come assicurazioni e strumenti previdenziali, nei cui portafogli oggi i fondi comuni sono presenti per un quarto degli asset complessivi, mentre erano meno del 10% nel 2000», prosegue Di Lorenzo.

 

Che si chiede se anche quest’anno sarà replicato il successo di raccolta del 2013. Le premesse ci sono tutte perché, come lo scorso anno, anche in quest’inizio 2014 le banche continuano a spingere sulla raccolta di fondi d’investimento per compensare il calo dei margini nell’attività tradizionale. «Dal lato dell’offerta, gli investimenti in fondi comuni sono da mettere in relazione con la ripresa del canale bancario, la cui raccolta netta, prevalentemente in fondi a cedola o a scadenza, è stata positiva nel 2013 per la prima volta dal 2005, approssimandosi a 25 miliardi di euro, cioè più della metà del totale», sintetizza De Lorenzo che avverte «la maggiore offerta di fondi d’investimento, e in genere di strumenti di risparmio gestito, da parte delle banche è stata sostenuta dalle esigenze di recuperare redditività con le commissioni, in un contesto in cui si sono ridotti i margini sull’attività tradizionale, e dalla minore necessità di collocare strumenti di propria emissione alla clientela retail per effetto della riduzione del credito erogato». Resta da capire se queste nuove tendenze continueranno a sostenere la raccolta del risparmio gestito anche nei prossimi anni, a differenza di quanto accaduto dopo il 2000, quando la raccolta fondi andò in crisi.

Potrebbe quindi innescarsi un circolo virtuoso? «L’esigenza di recupero della redditività e lo sviluppo di modelli di servizio più vicini alle esigenze della clientela dovrebbero sostenere anche nei prossimi anni l’accresciuta propensione delle banche alla gestione del risparmio, così come continuerà la buona performance delle reti di promotori», conclude Di Lorenzo. (riproduzione riservata)