di Giuseppe Di Vittorio 

Tobin tax, a caccia del gettito estero. Il direttore dell’Agenzia delle entrate ha firmato ieri il provvedimento che individua gli Stati e i territori con i quali non sono in vigore accordi per lo scambio d’informazioni e per l’assistenza al recupero crediti. Un passaggio necessario per provvedere all’assolvimento dell’obbligo nel caso l’ordine di acquisto dei titoli arrivi a una banca estera. Il legislatore ha previsto che a pagare l’imposta sia qualsiasi acquirente di titoli azionari italiani con un’aliquota dello 0,10% sul valore della transazione. Sui derivati, sempre italiani, opera una tariffa fissa. Si prescinde quindi dalla residenza fiscale dell’investitore per concentrarsi sull’oggetto del contratto. Ora quando l’ordine di comprare è inviato a un intermediario italiano assolvere l’imposta è semplice e non eludibile. La banca o nei casi più limitati la sim, svolge il ruolo di sostituto di imposta e quindi preleva materialmente il tributo che gira poi allo Stato. Quando l’ordine arriva a una banca estera, il legislatore ha previsto che sia la stessa banca tenuta al versamento dell’imposta a prescindere che le azioni siano comprate per conto di un altro soggetto. La disposizione riguarda in particolare tutte quelle banche che operano in paesi che non hanno accordi per lo scambio di informazioni finanziarie e l’assistenza al recupero dei crediti con lo Stato Italiano. Quindi se l’investitore che ha incaricato la banca non vuole pagare l’imposta è la banca estera che deve mettere mani al portafoglio e pagare la tassa. Il problema è che nella lista dei paesi privi di un accordo, resa nota ieri dalle Entrate, ci sono tutti i paesi del mondo a eccezione di quelli Ue più l’Islanda. E il 60% del gettito della Tobin tax deve venire da operazioni su mercati regolamentati, che possono tranquillamente sfuggire a qualsiasi tipo di tracciabilità.