Pagine a cura di Duilio Lui  

L’introduzione dei reati ambientali tra quelli rilevanti ai fini della responsabilità delle persone giuridiche, a cura del dlgs 121/2011, non è stata indolore. Il censimento condotto da ItaliaOggi Sette tra gli addetti ai lavori mette in luce i limiti di una normativa che, pur promossa nello spirito iniziale, ha provocato pesanti ricadute sul livello pratico, senza garantire i ritorni attesi.

Le innovazioni normative. Gli interventi del 2011 si sono innestati del dlgs n.231 del 2001, che ha introdotto in Italia la responsabilità delle imprese per reati commessi da amministratori, manager o dipendenti, collegando ad esse pesanti sanzioni pecuniarie o interdittive. L’innovazione ha riguardato una serie di reati contro l’ambiente (ex dlgs 152/06, legge 150/92, legge 549/93 e dlgs 202/07).

La particolarità di questa normativa, che in buona parte spiega le difficoltà applicative, nasce dal fatto che, rispetto ai reati originari, quelli di natura ambientale costituiscono una categoria molto più ampia e diversificata, il che richiede un adeguamento da definire caso per caso in base all’ambito di attività e alle peculiarità delle varie aziende, con incombenze non secondarie per molte realtà. Per Marco Moretti, di Legalitax Roma, spiega la principale novità è stata data dal fatto che per la prima volta sono comparse nel nostro ordinamento «fattispecie di reati presupposto di solo pericolo astratto e anche solo di matrice colposa». Con la conseguenza che sono cambiate le modalità di calcolo del cosiddetto «rischio accettabile». «Rispetto al passato, quando la valutazione veniva effettuata con riferimento a reati presupposto di pericolo solo dolosi o a reati presupposto colposi solo di danno, ora ogni impresa esposta a rischi ambientali deve calcolare questo rischio in termini contemporaneamente di solo pericolo e di sola colpa».

Dello stesso avviso è Marco Levis, partner di Plenum Consulting, per il quale proprio l’astrattezza della normativa del 2011 fa sì che occorra «ricostruire il quadro generale desumibile dal sistema delineato dal dlgs 231/2001 e verificarne il concreto ambito di applicazione, tenendo anche conto delle indicazioni che provengono dal diritto “vivente” del settore di specie». In concreto questo significa che l’azienda è chiamata a effettuare i controlli su un duplice livello: diretto e indiretto, quest’ultimo finalizzato a controllare lo svolgimento delle procedure di controllo e l’adeguatezza degli assetti organizzativi. «Questo tipo di controllo a carattere indiretto è di competenza dell’organismo di vigilanza», spiega Levis, «che non è investito di un potere di supervisione di carattere generale, trasversale su tutti i settori e le funzioni dell’organizzazione, ma deve svolgere la sua funzione ricevendo i flussi informativi dalla struttura, dai preposti al controllo interno, dall’audit e dal collegio sindacale». Insomma, un’incombenza non da poco, che richiede competenze e procedure nuove per le aziende. Senza offrire la garanzia di maggior tutela per l’ambiente. «Tra le incongruenze più evidenti», spiega l’esperto, «la non punibilità dell’articolo 256, comma 2, del dlgs 152/2006 riguardante l’abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti da parte dei titolari di imprese o responsabili di enti. Statisticamente questa ipotesi è quella che trova maggior riscontro nella casistica processuale e avrebbe rappresentato la base naturale su cui costruire la responsabilità da reato dell’ente».

Bene lo spirito della legge, ma non tutte le aziende sono pronte. Per Luciano Butti, avvocato di B&P (oltre che professore a contratto di diritto internazionale dell’ambiente all’Università di Padova), le innovazioni normative introdotte due anni fa «da una parte hanno aggravato le conseguenze economiche e di immagine per le aziende in caso di condanna di loro dirigenti o amministratori; dall’altro reso più conveniente per le stesse adottare – attraverso un efficace modello organizzativo – politiche di prevenzione dei possibili reati». Una novità che ha avvicinato l’Italia alla maggior parte delle altre esperienze europee, che puntano ad allargare i casi di responsabilità delle organizzazioni per gli illeciti dei propri dipendenti. «Nei Paesi anglosassoni», aggiunge l’avvocato, «questo avviene per lo più in applicazione di un principio generale del diritto di quelle realtà, sulla base del quale le organizzazioni rispondono per i reati commessi dai dipendenti anche nell’interesse dell’organizzazione. Nella maggior parte dei Paesi continentali, vi sono invece delle norme specifiche: per esempio in Francia la responsabilità delle organizzazioni è regolata dal codice penale, ed è stata estesa a partire dal 2005 (con legge n. 204/2004) a tutti i principali reati. Regole simili sono state introdotte in Spagna nel dicembre 2010 dall’art. 31-bis della legge n. 5/2010, mentre la Germania ha da diverso tempo un sistema simile al nostro, basato soprattutto su sanzioni economiche a carico delle organizzazioni (Legge OWiG)».

Tornando al quadro italiano, a fare la differenza per Butti è il modo in cui l’azienda accoglie la 231: «Se la vive come un aggravio formale in più, ne sentirà il peso. Se invece – come molte aziende stanno facendo – la utilizza per migliorare la propria organizzazione interna, il sistema delle deleghe e l’attenzione verso la legittimità del proprio operato, il vantaggio può essere enorme. Non dimentichiamo che, in caso di coinvolgimento in inchieste ambientali (che qualche volta avviene anche per violazioni solo formali), il danno soprattutto di immagine per l’azienda può essere enorme», aggiunge.

Dello stesso avviso è Nicola Nicoletti, risk & legal compliance Italy leader di Pwc: «Le imprese, infatti, si trovano in posizioni differenti a seconda dalla sensibilità del management verso questi tipi di rischi: per alcune è stata l’occasione per approfondire e migliorare i propri sistemi di gestione dei rischi ambientali, armonizzandoli all’interno di un modello che li affronta in modo sinergico, ad esempio, con quelli sulla salute e sicurezza sul lavoro. Per altre, invece, si tratta dell’ennesima richiesta di una legge che, consentendo l’adozione del modello organizzativo ma non prescrivendolo, mira a complicare la vita dell’azienda con ulteriori adempimenti burocratici. In questo secondo caso, purtroppo, troviamo la legittimazione della norma proprio nella scarsa attenzione che ad essa viene ancora riconosciuta da imprese che si ritengono al di sopra dei rischi che l’adozione dei modelli organizzativi mira a prevenire».

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