di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’età media dei parlamentari italiani scende a 48 anni: 45 per i deputati e 53 per i senatori, contro, rispettivamente, 54 e 57 anni degli uscenti.Ad abbassare molto la media anagrafica degli eletti è soprattutto il Movimento 5 Stelle che ha messo nelle liste molti 30-40enni: i parlamentari grillini hanno in media 37 anni.

Questa volta quindi si trova pienamente rappresentata in Parlamento la generazione nata negli anni 70 che più paga e pagherà il prezzo dell’attuale crisi economica stretta tra disoccupazione record e tagli alla spesa pubblica. Non è un caso che i voti ai grillini siano arrivati molto dai più giovani: si calcola addirittura che il 16% delle preferenze per Grillo provengano da chi ha votato per la prima volta nella sua vita. Un’onda di protesta che arriva da una generazione giovane per la quale il tasso di disoccupazione in Italia è arrivato a gennaio al 38,7%, il livello più alto dell’eurozona dopo Grecia e Spagna. E anche per chi un lavoro ce l’ha, resta il problema che la recessione economica peserà sul suo futuro assegno pensionistico. Con il metodo contributivo infatti è previsto che il montante di quanto versato venga rivalutato in base alla variazione quinquennale del Pil. Una recessione economica prolungata si traduce quindi in un montante che non viene protetto dall’inflazione. E proprio il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo è quello che crea il problema dell’equità tra generazioni.

Infatti, il progressivo calo dell’assegno pensionistico è sostanzialmente dovuto alla transizione dal sistema retributivo a quello misto e infine contributivo; in media si possono avere differenze nell’ordine dei 10 punti percentuali assoluti. E poco influisce sull’importo dell’assegno di chi è prossimo alla pensione la riforma Fornero che da quest’anno ha introdotto il contributivo per tutti in forma pro rata. Per chi può contare su più di 18 anni di contributi al gennaio 1996 la pensione si calcola in base allo stipendio medio degli ultimi anni. Si tratta di un metodo, il retributivo, molto generoso, ma anche non equo perché sganciato totalmente dai contributi versati durante la vita e determinato soltanto dai compensi ottenuti negli ultimi anni di lavoro. Un sistema nato a fine anni 60, quando si pensava che il miracolo economico dell’Italia post guerra fosse la norma. Ecco perché a metà anni 90 è intervenuta la legge Dini che ha posto un freno a questo sistema, anche se l’ha fatto diluendolo troppo nel tempo. La riforma Dini ha infatti previsto che chi all’inizio del 1996 aveva meno di 18 anni di contributi, avrebbe avuto una rendita pubblica determinata fino a fine 1995 con il retributivo e poi con il contributivo. Per i neoassunti dal 1996 in avanti invece era stato introdotto il metodo contributivo integrale: la loro pensione dipende così dai contributi versati, chi versa di più, più ottiene al momento di ritirarsi.

 

Il contributivo quindi colpisce appieno la generazione dei 40enni di oggi che si ritrovano a dover fare i conti con una pensione più bassa dei loro padri anche perché nel frattempo la stagnazione economica in cui è caduta l’Italia negli ultimi anni e le prospettive di una bassa crescita anche per il futuro taglieranno ulteriormente gli assegni che nel contributivo sono rivalutati in base al Pil. Non solo. Ai 40enni manca anche un orizzonte temporale sufficientemente lungo davanti che possa garantire un recupero della crescita economica, come invece ha la classe successiva, quella dei 20enni. Che dalla sua ha anche l’allungamento della vita lavorativa, che sarà molto più incisivo, e porterà alla fine ad accumulare maggiori contributi per la pensione. Un’analisi dell’università di Verona sui nati nel 1952, nel 1970 e nel 1988 conferma appunto che la classe del 1970 è quella su cui ricadono i maggiori costi fiscali e i minori vantaggi in termini di prestazioni sociali, pensione inclusa. Come emerge da una simulazione condotta da Progetica, società di consulenza indipendente, che mette a confronto quando potranno andare in pensione e con quale assegno i 60enni e i 40enni di oggi.

 

Un lavoratore dipendente nato nel 1958 che abbia iniziato a lavorare a 30 anni potrà avere un assegno pari al 67% dell’ultimo stipendio. Mentre uno nato nel 1968 (che abbia sempre iniziato a 30 anni a lavorare) dovrà accontentarsi di un 55% dell’ultimo assegno. Ma anche dal punto di vista dell’età in cui si potrà lasciare il lavoro le generazioni nate tra il ’68 e il ’75 appaiono in alcuni casi penalizzate. Per esempio i nati nel 1969 e 1970 che hanno iniziato a lavorare a 25 anni andranno in pensione a 70. Mentre chi è nato nel 1951 si potrà ritirare a 66 anni e otto mesi. «Il confronto tra le generazioni suggerisce alcuni degli effetti combinati delle riforme degli ultimi anni», dice Andrea Carbone di Progetica. In particolare le donne fino al 2015 possono accedere al pensionamento di anzianità con 35 anni di contributi e 57 anni di età se la lavoratrice è dipendente e 58 anni di età se autonoma. «Rimane per alcune donne nate negli anni ’50 la possibilità di accedere alla pensione con l’opzione contributiva (età inferiori ai 60 anni in tabella, ndr), a patto di avere l’assegno calcolato interamente con il sistema contributivo», sottolinea Carbone.

 

Il requisito di pensione anticipata contributiva (oggi di 63 anni e tre mesi incrementabili), riservato ai soli lavoratori che hanno iniziato dopo il 1996, potrebbe far andare in pensione qualche anno prima le generazioni più giovani. Ma non bisogna dimenticare che tale requisito opera solo qualora la pensione maturata sia maggiore di 2,8 volte l’assegno sociale, oggi pari a 5.749,90 euro annui. Ad esempio il lavoratore del 1972 che ha iniziato a lavorare a 25 anni potrà uscire con questo canale e andare in pensione a 67 anni, ossia tre anni prima rispetto alla classe del ’70. La differenza maggiore tra generazioni si trova, però, nella consistenza dell’assegno perché chi può contare su una parte importante di retributivo ha una copertura più consistente dell’ultimo assegno. Poi a parità di generazione conta l’età di inizio lavoro. «L’età di inizio dell’attività lavorativa è assai rilevante sull’importo dell’assegno pensionistico atteso; i valori simulati tendono infatti a decrescere spostando l’età di inizio dai 20 ai 35 anni, naturalmente il tutto ipotizzando la continuità lavorativa», avverte Carbone. Proprio la continuità lavorativa è un’altra nota dolente per le giovani generazioni, spesso alle prese per anni con lavori precari che non consentono di realizzare tale continuità. Da qui la necessità di costruire un’integrazione alla pensione pubblica. E sul fronte dei fondi pensione vale la regola prima si inizia a versare meglio è, perché il tempo è un prezioso alleato per far fruttare gli investimenti. Purtroppo però, come risulta dalle analisi Covip, proprio le giovani generazioni, che avrebbero più bisogno di un’integrazione, sono quelle che aderiscono meno ai fondi pensione. (riproduzione riservata)