di Carlo Giuro

L’Italia, al pari delle principali economie occidentali, dovrà sempre più fronteggiare l’impatto del rischio longevità che produce effetti sia sulla sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico pubblico sia sul pericolo del singolo lavoratore di sopravvivere al proprio reddito. Secondo il recente Rapporto sul Benessere Istat-Cnel la vita media in Italia è pari a 79,4 anni per gli uomini e 84,5 per le donne. Tra i 27 Paesi dell’Unione europea solo in Francia e in Spagna le donne sono più longeve che in Italia (85,3 anni in entrambi i Paesi); gli uomini sono più longevi in Svezia, mentre l’ Italia si posiziona al quarto posto in graduatoria assieme alla Spagna e dopo Cipro e Malta. E proprio come antidoto al «rischio di sopravvivere al proprio reddito» va letta l’utilità della rendita nei fondi pensione. Che cosa prevede la normativa e come si è mosso il mercato? Questi temi sono stati al centro di un convegno del Mefop. Partendo dall’inquadramento normativo, è utile rammentare che cosa prevede la normativa. Il diritto alla prestazione pensionistica si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni, così come stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza, con almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari. Le prestazioni pensionistiche in regime di contribuzione definita e di prestazione definita possono essere erogate al 100% sotto forma di rendita o in capitale, secondo il valore attuale, fino a un massimo del 50% del montante finale accumulato. Nel computo dell’importo complessivo erogabile in capitale sono detratte le somme erogate a titolo di anticipazione per le quali non si sia provveduto al reintegro. Eccezione prevista è rappresentata dalla circostanza in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70% del montante finale sia inferiore al 50% dell’assegno sociale (nel 2013 pari a 442,30 euro mensili e 5.749,9 annuali). In questo caso la prestazione erogata può essere interamente sotto forma di capitale. Dal punto di vista fiscale le prestazioni pensionistiche complementari sono imponibili per l’ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati a imposta. Sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche comunque erogate è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15% ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. Ma il concetto di rendita non è ancora metabolizzato dall’aderente, che per ora preferisce il capitale, ancora affezionato al modello Tfr. (riproduzione riservata)