di Pierluigi Piccari
Ora che le discussioni politiche sono impegnate sulle riforme strutturali e sulle liberalizzazioni, si può finalmente dare spazio a qualche riflessione sulle conseguenze nel lungo termine della riforma previdenziale Monti- Fornero rappresentata finora dalla legge 214/2011. Dal 2012 è stato esteso a tutti i lavoratori attivi il metodo contributivo per la determinazione della pensione, anche a quelli che in base alla normativa precedente avevano diritto al calcolo retributivo esteso a tutta l’anzianità maturata all’atto della pensione e che invece avranno una pensione calcolata con entrambi i sistemi di calcolo, in pro rata a seconda della durata dei periodi di attività vissuti prima del 1995, durante il periodo 1996-2011 e quello successivo. Tutto il sistema previdenziale tenderà a regime verso un calcolo della pensione secondo il metodo contributivo. Si conclude così un lungo ciclo storico che oggi di fatto riporta, almeno per qualche aspetto, l’Inps alle sue origini. Ed è su questa storia, lunga quasi un secolo (riquadro in pagina), che bisognerebbe riflettere per cercare di capire le ragioni delle condizioni attuali e le possibili prospettive che si aprono al sistema pensionistico. Una storia che iniziò nel 1898 con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo delle imprese. Nel 1919 la Cassa assunse il ruolo di una assicurazione generale obbligatoria (Ago) che interessava la totalità dei lavoratori dipendenti e nel 1933 si tramutò nell’Inps, ente di diritto pubblico al quale vennero poi affidate (1939) le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari, la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato o del pensionato e le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto. In quegli anni la determinazione del trattamento pensionistico, sostanzialmente contributivo, si basava sull’ammontare dei contributi versati, materialmente rappresentati dalle cosiddette marchette, di diverso valore unitario in relazione alla retribuzione del soggetto assicurato, che venivano apposte nel libretto personale che nel tempo consolidava la posizione contributiva dell’assicurato sino a costituire, con il suo ammontare finale, la base di calcolo della pensione spettante. A ciò corrispondeva un coerente sistema finanziario di gestione (quella che sostiene il trattamento pensionistico) a capitalizzazione del tipo «a premio medio generale e conti individuali». Le condizioni di equilibrio di tale sistema di gestione erano garantite dal fatto che le contribuzioni complessive, di anno in anno versate, erano investite in immobili messi a reddito o in sottoscrizioni del debito pubblico, in modo da garantire un sostenibile tasso di redditività ai conti individuali per costituire il capitale necessario destinato a coprire l’onere della pensione spettante al raggiungimento dell’età di vecchiaia. Tutto funzionava per il meglio: ognuno risparmiava per sè, secondo la sua storia retributiva, e otteneva dal capitale accumulato una pensione, per tutta la vita residua, potendo contare, per via del calcolo basato sulla prospettiva generale di sopravvivenza, sulla solidarietà degli altri assicurati- pensionati, mentre lo Stato, dal suo canto virtuoso, finanziava le necessità delle opere pubbliche offrendo all’Inps gli interessi nominali del debito pubblico che, insieme al reddito degli investimenti immobiliari, sostenevano le prospettive delle pensioni degli attivi. La crisi economica e monetaria seguita al secondo conflitto mondiale minò la tenuta finanziaria di questo sistema per l’impossibilità di realizzare rendimenti superiori all’inflazione e quindi di difendere dalla svalutazione della lira i patrimoni mobiliari accumulati. Seguì un dibattito tra gli addetti ai lavori , tra i primi gli attuari dell’Inps (Coppini e Petrilli, 1946), sulle caratteristiche dei diversi possibili sistemi di gestione, che portò dopo circa 20 anni (legge 153/69) ad abbracciare la definitiva scelta del sistema di gestione a ripartizione, sostituendo in parallelo il sistema contributivo di calcolo della pensione con quello retributivo, basato sull’ultima retribuzione. Nella fase di avvio di un sistema a ripartizione gli oneri correnti sono ovviamente inferiori a quelli in un sistema a capitalizzazione, strutturalmente trasferiti al futuro, per cui le scelte politiche furono facilitate. E dal dopoguerra sino agli anni ’90 l’Inps fu costretto a soddisfare le richieste del sistema sociale e politico per la estensione di coperture previdenziali ad altre categorie per pensioni sociali, integrazioni ai minimi e provvidenze assistenziali che nulla avevano a che fare con il sistema previdenziale assicurativo. Seguirono una normativa orientata a riconoscimenti di periodi utili (laurea, servizio militare, etc) e l’ istituzione della pensione di anzianità. Tutto ciò provocò la conseguente crescita del fabbisogno finanziario che però, tra aumenti dei tassi di contribuzione, crescita della popolazione occupata e sviluppo economico, sembrava apparentemente sostenibile. Invece la crisi arrivò ben presto, a causa degli oneri previdenziali crescenti per l’ampliamento dei livelli di protezione sociale, per la crescita del rapporto pensionaticontribuenti, per il maturarsi di posizioni assicurative sempre più onerose, per gli aumenti della durata media di vita e del numero delle pensioni di anzianità, nonché per il calo demografico e di produttività del sistema economico. Nel 1992 la riforma Amato (l. 503/92) cercò di contenere e dilazionare la spesa, ma è con la riforma Dini (l. 335/95) che si impostò un nuovo sistema con il pensionamento flessibile, tra 57 e 65 anni (uomini e donne), una prima armonizzazione dei trattamenti diversi per categorie e settori, lo sviluppo della previdenza complementare e l’introduzione progressiva della pensione contributiva (con gestione a ripartizione), per garantire l’eguaglianza tra montante contributivo (contributi individuali capitalizzati con il tasso medio nominale di crescita del Pil) e il valore della pensione determinato attraverso appositi coefficienti di trasformazione. Nel 2011 è arrivata la riforma Monti-Fornero (legge 214/11), con la soglia della vecchiaia spostata da 65 a 66 anni per gli uomini e da 60 a 62 per le donne sino a raggiungere i 68 anni nel 2018, oltre alla pensione di anzianità progressivamente dilazionata per disincentivarla, con una riduzione per la quota retributiva dell’1% per ogni anno di anticipo (sale al 2% dal terzo anno in su), con il blocco temporaneo per le pensioni già in pagamento dell’adeguamento all’inflazione, a eccezione dei trattamenti più modesti. Si passa infine al contributivo pro-rata per tutti, nella giusta considerazione che tale sistema svincola la prestazione finale dalle misure delle ultime retribuzioni, con meno oneri futuri. Tutto ciò è comprensibile e accettabile nei transitori drammatici, ma dovrebbe spingere a considerare le conseguenze di quanto si è stati costretti a decidere, in fretta e per necessità, perché nonostante tutti gli interventi ci sono ancora segni di squilibri e di sostanziali iniquità. 1) L’attuale sistema Inps soffre di iniquità strutturali conseguenti all’accumularsi dei diversi fondi di categoria che hanno apportato tutto il peso delle differenze dei trattamenti e dei loro disequilibri: per un’immediata comprensione della situazione basti il prospetto pubblicato in pagina del Fondo Fpld e le risultanze dei diversi fondi che lo compongono. Se ne deduce che il Fpld in senso stretto è costretto a sostenere con il suo avanzo di gestione le pensioni erogate dagli altri fondi, per i quali le statistiche registrano valori medi ben superiori a quelle erogate dal fondo base: una solidarietà distorta fa sì che alla fine i poveri paghino per i più ricchi. Nel Preventivo 2012 risulta che il numero delle pensioni a carico del Fpld in senso stretto rappresenta il 95,65% di quelle in pagamento per l’intero Fondo
Pensioni. 2) Se si guarda all’insieme più ampio dei fondi gestiti dall’Inps, anche qui i risultati di gestione disegnano un panorama di squilibri: le gestioni pensionistiche Ago (gestioni Enti Creditizi, Esercenti Attività Commerciali, Artigiani, Agricoltori) sono tutte in perdita rispetto alla sola Gestione Parasubordinati con risultati positivi. Altrettanto avviene per quelle sostitutive dell’Ago (Fondo Volo, Fondo Spedizionieri Doganali e Fondi Ferrovie e Poste Italiane etc.). 3) La storia del passaggio di Ferrovie e Poste Italiane all’Inps andrebbe peraltro approfondita per comprendere quali oneri latenti il regime della ripartizione abbia comportato all’atto del passaggio di due eserciti di attivi e pensionati, sino allora curati con la normativa dello Stato, e dovrebbe far guardare con grande attenzione alle conseguenze della fusione con l’Inpdap, l’istituto nazionale previdenza dipendenti amministrazione pubblica, dal 2012 confluito nell’Inps con 3,3 milioni di attivi e 2,79 milioni di pensionati. 4) Il passaggio al contributivo dovrebbe segnare peraltro l’occasione per unificare le diverse misure della contribuzione con qualche prospettiva per il calo del costo complessivo del lavoro: perché devono coesistere aliquote contributive tanto diverse? I lavoratori dipendenti hanno il 33%, gli artigiani il 21,3%, i commercianti il 21,39%, i parasubordinati dal 18% al 27% a seconda che coesista un’altra forma di previdenza.Se il sistema contributivo si sostanzia in una forma di risparmio assicurativo obbligatorio, che si impone a garanzia che tutti provvedano al proprio futuro pensionistico, non si vede perché debbano sopravvivere tali differenze e ingiustificate solidarietà. 5) I processi di capitalizzazione, con l’equità attuariale insita nel sistema contributivo, andrebbero rivisti. Da un lato lo Stato oggi lucra la differenza tra tasso di crescita nominale del Pil, riconosciuto all’assicurato, e tasso corrente del debito pubblico risparmiato per le contribuzioni versate in Tesoreria, mentre dall’altro nega l’adeguamento all’inflazione che è dovuto quando nei coefficienti di trasformazione è previsto un certo tasso di crescita del costo della vita. 6) Una precisa riflessione meriterebbero quindi i riferimenti delle misure dei tassi di valutazione sia del monte contributivo sia dei coefficienti di trasformazione. E questi ultimi andrebbero aggiornati e distinti, anche in relazione al sesso, in modo più equo e attento alla coerenza attuariale tra capitale accumulato e pensione (quelli vigenti risalgono al 2006 e furono calcolati su basi demografiche del 2002). 7) Quanto agli interventi sempre più dilatori dell’età della pensione di anzianità, quando si tratta di pensioni contributive, quindi erogate a fronte di un capitale già accumulato, non si vede perché non si debba riconsiderare la questione dell’età del diritto quale utile strumento di spinta all’uscita dal lavoro dipendente verso nuove attività e di sostituzione tra generazioni. Di fatto la lotta alla pensione di anzianità sino a oggi condotta risente del peso del passato, ma non si giustifica più in un pieno e coerente sistema contributivo, che veda quanto accumulato dal singolo correttamente tradotto in un importo spettante, poco o tanto che sia, soltanto in relazione all’età raggiunta e a un minimo di anzianità accumulata. 8) Tra le tante riforme auspicate è indifferibile un’attenta indagine che ridia ai contributi versati la certezza della misura di quanto accumulato per il futuro e la coerenza con quanto spettante per la pensione, distinguendo i costi di natura assistenziale, che pesano in modo differenziato tra le diverse categorie, da quelli strettamente previdenziali, per riportare così alla fiscalità il loro onere. Tutto ciò permetterebbe l’ovvia conseguenza di una diminuzione del costo del lavoro e una più trasparente mutualità sia all’interno della stessa generazione sia tra generazioni diverse. L’introduzione del sistema contributivo, nella sua logica strutturale di conto di risparmio assicurativo individuale, offre oggi, a chi ha il coraggio di una vera riforma, la soluzione del problema. Si scoprirebbe così che il sistema contributivo, visto oggi come un modo per diminuire il costo del sistema pensionistico, ricondurrebbe in prospettiva l’Inps al suo passato di ente assicurativo, dove per sua natura il debito, rappresentato dai conti individuali, corrisponde ad appropriate riserve tecniche e a corrispondenti investimenti a copertura. Il risparmio assicurativo previdenziale tornerebbe così a finanziare gli investimenti pubblici, sottoscrivendo titoli di Stato protetti dal pericolo già noto dell’inflazione: tanto tempo non sarebbe passato invano. (riproduzione riservata)