ADRIANO BONAFEDE

Perissinotto ha tirato il primo sospiro di sollievo il 21 dicembre scorso, subito dopo la decisione del presidente della Bce di concedere in prestito 500 miliardi alle banche al tasso dell’1 per cento. E il secondo il 29 febbraio, con l’ulteriore tranche da 500 miliardi. San Draghi. Ma anche San Monti. Grazie ai loro “miracoli”, che hanno ridato fiducia nell’Italia, i titoli di Stato, ridotti al lumicino fra novembre e i primi di dicembre, si sono rianimati riprendendo quota in termini di valore.
Un vero toccasana per Generali, perché proprio a dicembre la svalutazione dei government bond, di cui la compagnia è per motivi tecnici piena zeppa (50 miliardi, a fronte degli impegni soprattutto sul ramo Vita) avevano fatto pericolosamente scendere il Solvency ratio al livello di 112. Una quota tanto bassa da far considerare agli analisti la possibilità di un aumento di capitale, penalizzando anche le performance del titolo in Borsa, sotto del 15 per cento rispetto ai peers (i diretti concorrenti).
Poi, però, l’incubo si è rapidamente dissolto e gli operatori stimano che il Solvency ratio sia risalito a 127 a fine febbraio e oggi sia almeno a 130 (e continua a crescere via via che lo spread BtpBund scende). “Ci aspettiamo un impatto positivo sull’embedded value di 3,5 miliardi” scrive Gianantonio Villani nell’ultimo report “espresso” di Kepler. Mentre una serie di report da Merril Linch a Equita, da Intermonte a Kepler si sono affrettati a escludere la necessità di un aumento di capitale, che avrebbe preoccupato molto i soci di Generali, a cominciare da Mediobanca, affaccendata nel complicato salvataggio di FondiariaSai.
L’amministratore delegato e capo azienda del gruppo assicurativo italiano può adesso presentarsi con maggiore tranquillità alla disclosure dei conti 2012, che avverrà mercoledì 21 marzo a Milano. Ma, certo, questo scampato pericolo non può far dimenticare che per Generali, come per tutti i gruppi finanziari italiani, il 2011 è stato un annus horribilis. In autunno Perissinotto, parlando con gli analisti, aveva previsto un utile ridotto, pari a 1 miliardo. Cifra che però, secondo fonti attendibili, potrebbe essere ulteriormente ridimensionata a circa 750 milioni. A pesare non ci sono soltanto, al 30 settembre scorso, le svalutazioni sul debito sovrano della Grecia (pari a 810 milioni), ma anche quelle sull’intero portafoglio azionario e di Telco in particolare, che ha pesato per 143 milioni. Mentre è attesa un’ulteriore svalutazione di quest’ultima partecipazione con un impatto negativo sull’utile di 150 milioni o anche di più. Niente è però deciso in via definitiva, per cui alla fine l’utile potrebbe risultare più alto.
I motivi di preoccupazione non sono però finiti con il rialzo dei titoli di Stato in questo primo scorcio d’anno. Sono infatti in scadenza prestiti subordinati per un controvalore di 750 miliardi. Che, se rinnovati alle attuali condizioni di mercato, potrebbero costare molto di più secondo qualche analista. Altre fonti però sostengono che dopo le recenti riduzioni dei tassi, a Generali il loro rinnovo potrebbe costare soltanto una quindicina di milioni lordi in più, considerando che i prestiti subordinati hanno un costo superiore ai normali bond.
La decisione di vendere la quota di controllo nell’israeliana Midgal per 835 milioni non sembra quindi correlata alla necessità di rifinanziare i bond. Questi soldi serviranno, per un modesto 2,5 per cento, a rafforzare il Solvency, per il resto a fornire quella liquidità necessaria a un gruppo che ha 400 società in 40 paesi.
Il forte calo dell’utile nel 2011, 750 milioni (se sarà confermata l’ulteriore svalutazione di Telco), inferiore persino a quello del 2008, che era stato di 861 milioni, pur con le prospettive migliori per il 2012 e il 2013 (le previsioni degli analisti vanno dai 3,4 ai 4 miliardi in totale per i due anni) s’incrocia con altri interrogativi. Ad esempio, visto che ormai è pressoché certo che Kellner è in uscita, è chiaro che eserciterà nel 2014 la sua put sul 49 per cento della joint venture tra Generali e Ppf (GeneraliPpf). Una put che, secondo Matteo Ghilotti di Equita (report del 21 febbraio scorso), dovrebbe costare “un minimo di 2,5 miliardi”.
Il punto è come far saltar fuori quei 2,5 miliardi alla fine del 2014, considerando che, da sempre, Generali ha pagato il dividendo (di solito intorno al 40 per cento degli utili, salvo che nell’anno di crisi 2008, quando il payout ratio fu soltanto del 24,6 per cento). Probabilmente, dati i magri risultati in termini di profitti netti nel 2011, quest’anno il payout potrebbe essere inferiore. Ma se fosse il 40 per cento, saremmo a circa 300 milioni. E’ chiaro però che, per pagare i 2,5 miliardi nel 2014, tra il bilancio del 2011 e quello del 2013, si dovrebbe mettere da parte una media di 800 e passa milioni all’anno. “Pari sempre secondo Equita a 12 punti in meno di Solvency 1”. Se quest’anno saranno solo 450500, vuol dire che nei prossimi due esercizi dovranno saltar fuori due miliardi.
È dunque evidente che per Generali la coperta sembra sempre corta. Una coperta che non ha due ma ben tre lembi. Il primo riguarda la necessità di pagare i dividendi come al solito. Il secondo quello di mettere fieno in cascina per l’acquisto del 49 per cento di GeneraliPpf. Il terzo quello di coprire eventuali cadute nel Solvency ratio nel caso in cui i mercati dovessero di nuovo vivere un momento negativo.
I soldi, per Generali, sono quelli che sono. Gli utili che una società tradizionale e prudente come la compagnia di Trieste, fortemente concentrata nel business vita (il 69 per cento del totale) può generare sono al massimo, dicono gli analisti, di 3 miliardi l’anno. Tutto questo in condizioni ordinarie. In caso di tempeste finanziarie, che riguardino soprattutto il debito sovrano italiano (Generali ne ha in pancia ben 50 miliardi, la metà delle sue riserve tecniche in Italia) il Solvency ratio si riduce con una rapidità impressionante. Dunque per essere prudente com’è la sua caratteristica, Generali non può perdere di vista questo rischio. Le previsioni per il 2012 e il 2013 riflettono una situazione certamente migliore del 2011 ma non ancora perfettamente normalizzata.
Il vero problema è che Generali, se volesse crescere per linee esterne, dovrebbe fare un aumento di capitale che i suoi azionisti in questi anni sono sempre stati restii a concedere. Tra il 2001 e il 2010, Allianz ha chiesto al mercato anche per operazioni sbagliate come l’acquisto di Dresdner Bank che poi ha dovuto rivendere 18,6 miliardi, Axa 11,5, il Leone solo 2,8. Per portare a termine quella che in fondo non è altro che un’acquisizione, cioè il 49 per cento di GeneraliPpf, il gruppo di Trieste ha fatto un’acquisizione in due tranche, la prima nel 2007 e la seconda nel 2014. Solo che, per pagare quest’ultima, lo farà a rate con parte degli utili generati tra il 2011 e il 2013.
In mancanza di azionisti disposti a mettere generosamente soldi sul piatto delle acquisizioni, si è molto discusso in questi anni su come “spremere” più valore da Generali. I problemi sono stati individuati e riconosciuti dallo stesso management. Ad esempio rispetto ai concorrenti la compagnia italiana ha troppo poco asset management, che proprio durante lo scorso anno di turbolenza ha permesso ad Axa e Allianz di attutire il colpo. Ma è un settore dove non si costruisce una posizione in un momento. La forte concentrazione sul Vita è sembrata invece finora una precisa scelta, che punta sulla creazione di valore sul lungo termine ma che assorbe più capitale nell’immediato. Anche qui una discussione è in atto. Infine, secondo qualche esperto Generali è ancora troppo concentrata in Italia, da cui arriva però un terzo di tutti i profitti.