Dopo il fiscal compact arriva il procurement compact. Della Ue lamentiamo l’evanescenza politica da un paio d’anni, ma non c’è impulso di modernizzazione che non arrivi da lì (non senza contraddizioni). Così l’Italia, da vent’anni incapace di chiudere il cantiere normativo degli appalti pubblici (solo dall’estate si contano un centinaio di modifiche al Codice appalti del 2006) potrebbe imboccare una direzione migliore grazie alle tre direttive in discussione a Bruxelles e Strasburgo (e in tutti i parlamenti nazionali; in Italia dalla scorsa settimana) per «una maggiore efficienza nel mercato europeo degli appalti».
Basterebbe, per rivoluzionare tanto malcostume, l’effettivo utilizzo dell’offerta per via telematica – che per le nuove direttive rappresenterà la regola – insieme a tanti profili di snellimento procedurale e di certezza di tempi, regole e oneri (che non potranno cambiare in corso d’opera) in un quadro di sostanziale omogeneità di regole.
La maggior parte delle opere pubbliche messe a gara in Italia, infatti, hanno (sulla carta) i requisiti dell’«appalto europeo»: qualsiasi impresa dell’Unione può partecipare, ma quasi nessuna lo fa. Perfino per le grandi opere. E non comprendono, gli stranieri, il misto di furbizia e diffidenza della seconda classificata che ricorre sempre al Tar (e subisce la stessa sorte nell’altra gara vinta un mese prima o un mese dopo). Per non dire delle buste chiuse, in qualche caso utilizzate al posto delle “tre carte”…
Bandi (volutamente) mal scritti o “su misura” e concorrenti furbi. Pil 2012 a -1,3%, se andrà bene. Ci sarà mica un collegamento?