Selezione di notizie assicurative da quotidiani nazionali ed internazionali

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Ben il 54% dei lavoratori italiani è preoccupato per l’impatto dell’incertezza economica sul proprio posto di lavoro, il 49% sulla propria carriera. Di fronte allo spettro di una possibile crisi economica e all’aumento dell’inflazione, i dipendenti chiedono più sicurezza occupazionale e stabilità finanziaria, ma non rinunciano a ricercare flessibilità organizzativa e un ambiente di lavoro di cui condividano i valori: oggi il 66% non accetterebbe un nuovo lavoro se non offrisse un inquadramento come dipendente e il 60% se non offrisse uno stipendio più elevato, il 58% se influisse negativamente sull’equilibrio vita-lavoro, il 48% se non sentisse senso di appartenenza.
Sono 800 milioni i posti di lavoro, pari a circa il 25% dell’attuale forza lavoro globale, altamente vulnerabili al cospetto dell’ormai imperante cambiamento climatico e al suo inevitabile impatto sull’economia. Non agire preventivamente a sostegno della tutela dell’ambiente rischia, quindi, di rallentare la crescita economica e impattare negativamente i livelli di occupazione. È quanto emerge dal report di Deloitte «Work Toward net Zero» in cui si dimostra come affrontare, invece, il cambiamento climatico con una transizione attiva, sinergica e globale consente di raggiungere il target di emissioni zero e favorisce contestualmente la crescita economica e l’espansione del dividendo occupazionale. La riduzione delle emissioni nette globali a “zero” entro il 2050 potrà cambiare l’economia mondiale, trasformando anche il ruolo della forza lavoro.
L’Italia è il paese più avanti in Europa nella realizzazione degli interventi previsti nel Pnrr per la trasformazione digitale, avendo già completato il 17% di milestone e target dedicati, contro il 10% di Spagna e Francia e lo zero di 15 paesi tra cui la Germania.
Tassi di interesse composti, mutui, diversificazione, questi sconosciuti. Le conoscenze finanziarie degli investitori italiani, infatti, non sono ancora sufficientemente diffuse. Ciò vale sia per i concetti di base sia rispetto agli strumenti finanziari e alle dimensioni del rischio.

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  • Hacker russi all’attacco anche l’Italia nel mirino
Massiccia offensiva delle cyber gang in tutto il mondo. Nel nostro Paese a rischio pure i dati sanitari. Al momento non è chiaro chi e come è stato colpito nel nostro Paese. Certo è che l’Agenzia nazionale per la cybersicurezza nel pomeriggio di ieri ha lanciato l’allarme. E ha presocontatti con l’azienda che realizza il software per capire quali sono i principali clienti nel nostro Paese dopo che la Francia ha vissuto un weekend nerissimo. Ce ne sono tantissimi: ministeri, agenzie, aziende di trasporto, banche. Ieri sono stati rallentati bancomat, prenotazioni di trasporti, pagamenti elettronici. La preoccupazione maggiore riguarda però la sanità: il software è utilizzato da tutte le principali aziende sanitarie del nostro paese e, dalle prime informazioni, in pochissime avrebbero eseguito l’aggiornamento.

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  • Vita nuova per il Monte dei Paschi adesso il viaggio di nozze è possibile
Superato con successo il difficile ostacolo della ricapitalizzazione, e grazie anche al ritorno di interesse degli investitori per le banche italiane, il dossier senese torna sulle scrivanie dei candidati alla fusione: prime fra tutte Unicredit e Banco Bpm. Non è facile risanare una banca che perde acqua da un decennio: né per il socio pubblico venderla, dopo averla proposta a chiunque mentre doveva plafonarla con 8 miliardi. Ma l’allineamento astrale creatosi da gennaio tra gli investitori e le banche italiane – Citi l’ha chiamata «la più dolce luna di miele degli ultimi 15 anni per prospettive di utili e solidità patrimoniale» – rimette d’impeto il dossier senese sulle scrivanie che contano. È accaduto altre volte, nella storia della banca più antica del mondo: come nel 2014, quando cogliendo un rally di Borsa Fondazione Mps seppe vendere uno dei suoi ultimi pacchetti a ignari investitori esteri, schivando per poco il dissesto. In fasi simili bisogna guardare Piazza Affari: dove Mps sta a 2,45 euro, molti più degli 1,62 di tre mesi fa, e più anche dei 2 euro delle azioni per 2,5 miliardi di euro emesse nell’aumento chiuso il 31 ottobre.
  • La discesa dei costi dei fondi ma in Italia troppo poco azionario
L’ultimo rapporto Esma mostra che i gestori stanno gradualmente riducendo le commissioni anche se gli Etf vincono per convenienza e performance. Mentre i portafogli degli italiani restano poco bilanciati. All’apparenza è l’ennesimo studio sui costi e sui rendimenti dei fondi e degli strumenti d’investimento in Europa. Ma a guardar bene ilmarket report dell’Esma (l’Autorità europea di vigilanza sui mercati) uscito un paio di settimane fa è invece molto di più: è una vera e propria radiografia del comparto dei fondi mobiliari armonizzati europei (Ucits). E, se letto in controluce, il testo “Costs and performance of Eu retail investment products 2023” diventa anche – sorprendentemente – una preziosa guida per i risparmiatori più accorti.

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  • Attacco hacker nel mondo. Violati migliaia di server
Una corsa contro il tempo per avvisare il maggior numero di aziende con sistemi informatici prodotti dall’americana Vmware affinché corrano ai ripari, per eliminare le vulnerabilità che potrebbero spianare la strada a virus ransomware, capaci di bloccare tutto. È quella scattata alle 2 di domenica notte, quando gli specialisti dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale si sono accorti della falla a livello nazionale e hanno lanciato un invito per l’aggiornamento immediato di tutti i sistemi interessati. In particolare quelli nel settore della sanità. Un allarme mondiale partito dalla Francia, scenario della prima segnalazione venerdì scorso, diffuso poi in Finlandia, Turchia, Germania, Regno Unito, Canada e Usa. Fino a ieri sera, secondo i vertici dell’Acn, nel nostro Paese non risultavano sistemi compromessi dagli hacker, ma con il passare delle ore il rischio è destinato ad aumentare. Anche perché il malware sfrutta il mancato aggiornamento del sistema nonostante già nel 2021 i produttori di server Vmware avessero fornito le patch, ovvero le correzioni necessarie per far fronte alla vulnerabilità del sistema. Alcuni le hanno utilizzate, molti altri no. E adesso l’ondata di attacchi ransomware, già in circolazione, potrebbe abbattersi anche sull’Italia.
  • Enti, aziende, Comuni a rischio ricatto: «Paga in bitcoin o sveliamo i tuoi dati»
Concedeteci di usare una frase fatta, eppure talvolta non meno vera, che spesso abbiamo sentito per gravi fatti di cronaca: «Una strage annunciata». In tarda serata i sistemi colpiti e bloccati dall’attacco ransomware avevano superato in tutto il mondo quota 2.100. Un numero che sale rapidamente. La vulnerabilità sfruttata dai cybercriminali era tutt’altro che sconosciuta. La soluzione, la «patch» (toppa) come si dice in gergo, era stata rilasciata ben due anni fa, nel febbraio 2021, da VMware, l’azienda del software coinvolto. «E tre giorni fa il Cert francese (il Centro di risposta agli allarmi cyber, ndr) aveva lanciato l’allerta: è stata più o meno ignorata e questo fatto è di una gravità sconcertante» ci dice Corrado Giustozzi, divulgatore ed esperto di cybersicurezza, partner di Rexilience. Ogni attacco informatico sfrutta sempre una vulnerabilità nel software. In questo caso quella riscontrata nei diffusi software di «virtualizzazione» della californiana VMware («virtualizzare» significa fare girare in modo simulato un software o un sistema su un altro hardware). In questo caso la soluzione per il problema era stata messa a disposizione da VMware ben due anni fa, nel febbraio 2021. «C’è di mezzo una catena infinita di sciatteria e disinteresse per non aver fatto gli aggiornamenti dovuti… E per di più il software in questione può essere attaccato solo se esposto su Internet, cosa che andrebbe evitata. Chi è nei guai non dico che se li è andati a cercare ma di certo non si è mosso in tempo con le contromisure» dice con amarezza Giustozzi.
  • Sanità: chi può paga, tutti gli altri aspettano
In Italia da tempo indefinito la certezza di avere un esame o una visita medica in tempi rapidi ce l’ha solo chi può permettersi di pagare. Prima della pandemia, secondo il Censis, 19,6 milioni di italiani si sono visti negare almeno una prestazione dei livelli essenziali di assistenza in un anno e, presa visione della lunghezza della lista di attesa, hanno proceduto a farla di tasca propria: ogni 100 tentativi di prenotazione, 28 sono finiti nel privato. Dopo i due anni di picco del Covid (2020-2021) che cosa sta succedendo? Vale l’immagine che abbiamo utilizzato più volte: immaginate una lunga fila al binario che attende di salire sul treno a cui si sommano i passeggeri di oggi. Se al treno non vengono aggiunte altre carrozze, ci saranno sempre più passeggeri che dovranno rimandare quel viaggio, che in molti casi gli può salvare la vita, o in alternativa pagarsi un trasporto privato. È il motivo per cui recuperare velocemente le prestazioni sanitarie perse durante il Covid, a causa della paralisi dell’attività programmata, è per il Servizio sanitario nazionale una assoluta priorità. E per due ragioni: 1) la maggior parte della popolazione non può permettersi la sanità a pagamento; 2) il ritardo di una cura o di una diagnosi va ad aggravare sia il paziente che le casse pubbliche. Un’elaborazione di dati fatta per Dataroom dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che fa capo al ministero della Salute ci permette di capire quanto è lunga quella coda e perché non si riesce ad accorciarla.

  • Redditi e ricchezza. Sorpresa, l’America è più equa
«I livelli di ineguaglianza più bassi in Europa non possono essere spiegati da un sistema di imposte e trasferimenti più equalizzante. Considerando anche le imposte indirette e i trasferimenti di genere (non monetari), gli Usa redistribuiscono una quota maggiore del reddito nazionale ai gruppi di reddito più poveri rispetto a qualsiasi paese europeo». Questo passaggio di un bellissimo lavoro recente («Why Is Europe More Equal than the United States?») di Thomas Blanchet, Lucas Chancel e Amory Gethin, del World Inequality Lab (settembre 2021) contiene un messaggio fondamentale che ci eravamo dimenticati: per capire davvero le diseguaglianze nelle economie avanzate, si deve rivolgere l’attenzione anche ad altri aspetti, non solo all’efficacia redistributiva delle imposte e della spesa pubblica. L’obiettivo principale dell’imposta sul reddito dovrebbe essere innanzitutto quello di fornire gettito per finanziare la spesa pubblica (sanità, istruzione, eccetera) e non tanto, o non solo, quello di redistribuire reddito tra gli individui. Da tempo siamo convinti e abbiamo provato ad argomentare su questo giornale diverse volte, che per molteplici cause (difficoltà tecniche nel tassare alcune basi imponibili, l’evoluzione dei sistemi economici, scelte politiche precise), il potere redistributivo delle imposte, e in particolare dell’Irpef, si sia purtroppo molto attenuato nel corso del tempo. Sia chiaro non ne siamo felici, ma si deve affrontare la realtà.

  • Valori alti ma poche liti: l’arbitrato cerca slancio
  • Per l’equo compenso importi vecchi e incompleti