Francesco Ninfole
Per lungo tempo la Bce ha agito tenendo bene a mente l’errore del 2011, quando sotto la presidenza di Jean-Claude Trichet i tassi sono stati aumentati in modo prematuro aggravando le difficoltà della grande crisi finanziaria e del debito sovrano. Proprio a questo scopo Francoforte ha varato a luglio 2021 (cioè soltanto sette mesi fa) una revisione della strategia con l’obiettivo di allontanare un rialzo affrettato. Il target di inflazione è stato portato al 2% nel medio termine: in precedenza era «sotto ma vicino» al 2%. Si è chiarito che questo obiettivo è simmetrico ed è stata prevista persino la possibilità di sforare il livello. Così si è voluto togliere, perlomeno sulla carta, l’hawkish bias, ovvero una prevalenza delle politiche restrittive a trazione tedesca, diventate non più in linea con i rischi di deflazione. Sembra passato un secolo, ma in realtà solo poco più di un anno fa l’inflazione dell’Eurozona era ancora su valori negativi, sui quali si è mantenuta tra agosto e dicembre 2020 come conseguenza della prima fase della pandemia.

La ripartenza dell’economia ha fatto cambiare rotta all’inflazione. I colli di bottiglia nella produzione, gli squilibri tra domanda e offerta e soprattutto i prezzi dell’energia (fuori dal controllo della banca centrale) hanno fatto impennare il carovita, che a gennaio è arrivato al 5,1%. Per tutto il 2021 la Bce ha mantenuto il sangue freddo ricordando gli errori dell’era Trichet. La presidente Christine Lagarde ha osservato più volte i fattori transitori alla base dell’aumento dei prezzi. Ancora il 20 gennaio ha dichiarato che la Bce non intendeva muoversi: «Faremmo più male che bene all’economia. Pensiamo che nel 2022 l’inflazione si stabilizzerà e calerà. Scenderà meno di quanto noi e tutti gli economisti avevano previsto, ma scenderà».

La direzione di Francoforte però è cambiata con il dato di gennaio sull’inflazione. L’aumento dei prezzi era atteso in flessione, anche per la fine dell’effetto dell’Iva tedesca. Invece il livello è aumentato ancora, sebbene soltanto dello 0,1% rispetto al mese precedente (dal 5 al 5,1%). I dati sono risultati in aumento per il cibo, ma non per i beni industriali e per i servizi. Però per oltre il 50% l’inflazione resta legata ai prezzi dell’energia, che a gennaio hanno registrato un aumento record (+28%). L’inflazione di fondo – cioè al netto di energia, alimenti e tabacco – è scesa dal 2,6 al 2,3%. I salari, decisivi per un’inflazione strutturalmente più alta, sono attesi in rialzo (per effetto del calo della disoccupazione al 7%), ma finora non si sono mossi in modo rilevante.

I dati sull’inflazione di un singolo mese (dopo dieci anni di valori sotto il target) hanno avuto un effetto significativo sulle politiche Bce. Nel consiglio del 3 febbraio, pur in assenza di nuove misure, Lagarde ha fatto un’inversione a «U» e ha orientato la politica monetaria in senso decisamente più restrittivo, prima ancora dell’aggiornamento delle nuove proiezioni macro in arrivo a marzo. La presidente ha detto che «la situazione è cambiata» e la Bce «è più vicina al target» del 2%. Inoltre non ha escluso un aumento dei tassi nel 2022 (fino a pochi giorni prima indicato come «molto improbabile») e una chiusura anticipata del Qe (il programma di acquisto di titoli App, dopo il termine del piano pandemico Pepp).

Nel giro di poche ore gli analisti hanno così anticipato le attese di strette di circa un anno. Ora la maggior parte degli economisti vede la fine del Qe tra giugno e settembre, con la prima stretta sui tassi tra settembre e dicembre. Goldman Sachs e Deutsche Bank prevedono due rialzi quest’anno da 0,25% ciascuno. Così nel 2022 i tassi sui depositi tornerebbero a zero dall’attuale -0,50%. Anche dalle curve swap è emersa l’aspettativa di strette dello 0,5% quest’anno. Quindi si è passati in poco tempo da un aumento «molto improbabile» nel 2022 all’aspettativa di strette multiple fino ad arrivare all’addio ai tassi negativi.

Tutto ciò non poteva che farsi sentire sui mercati obbligazionari. I tassi di tutti i titoli di Stato europei si sono impennati nei due giorni successivi alle parole di Lagarde: quelli dei bond italiani a dieci anni sono saliti di 31 punti base (da 1,43 a 1,74%, ai massimi da maggio 2020), quelli tedeschi di 16 punti (da 0,04 a 0,20%). Lo spread Btp-Bund è aumentato da 139 a 154 punti base, ai massimi da settembre 2020. Lagarde aveva evidenziato che gli spread finora non erano saliti, ma dopo il suo intervento lo hanno fatto.

È accaduto più volte che annunci di minore sostegno della Bce si siano tradotti in rialzi dei rendimenti e poi, paradossalmente, in un maggiore intervento della banca centrale. In tal senso il caso di scuola è il «non siamo qui per chiudere gli spread» di Lagarde nel marzo 2020, che ha preceduto di una settimana l’avvio del Pepp. Non è un caso che il giorno dopo la conferenza stampa hawkish di Lagarde sia intervenuto per gettere acqua sul fuoco il governatore francese François Villeroy de Galhau, invitando a «non affrettare conclusioni sul calendario» della politica monetaria Bce, che rimarrà «graduale e aperta». Nella stessa giornata però il governatore estone Madis Muller ha confermato che «la Bce potrebbe rivedere la velocità per chiudere gli acquisti di titoli». Il nuovo presidente della Bundesbank Joachim Nagel, al primo consiglio dopo le dimissioni di Jens Weidmann, si sarebbe detto «molto felice» degli esiti della riunione. Il consiglio è diviso su natura, durata ed entità dell’inflazione, ma i falchi sono tornati alla carica dopo il dato di gennaio, che sembra aver messo nel cassetto la lezione dei dieci anni precedenti.

Il balzo dello spread è innanzitutto un monito per l’Italia, chiamata a non confidare più nell’anestesia degli acquisti Bce. Ma un rialzo troppo repentino dei costi di finanziamento dei governi (e a cascata di quelli di imprese e famiglie) può intaccare la ripresa nell’Eurozona, che secondo le attese Bce sarà in ogni caso debole nel primo trimestre. La domanda ha raggiunto il livello pre-pandemia, ma non quello che avrebbe toccato senza il Covid. Gli Usa invece sono già del 30% sopra la soglia, come ha ricordato proprio Lagarde. Il rallentamento del pil può abbassare nel medio termine l’inflazione, che al momento resta ancora sotto l’obiettivo (all’1,8% nel 2023 e nel 2024), in attesa delle proiezioni di marzo, quando potrebbero manifestarsi i «rischi al rialzo» indicati dalla presidente soprattutto per il breve termine, ma non esclusi neppure per il medio periodo. «Il cambiamento della Bce non è guidato da una rivalutazione dei fondamentali economici. Continuiamo a pensare che i rialzi del 2023, per non parlare di quelli del 2022, siano prematuri», ha osservato BofA. Citi ha evidenziato che i falchi sono pronti a muoversi sulla base di ipotesi, non di dati: questo è giudicato «un parallelo inequivocabile con le circostanze in cui hanno avuto luogo i famigerati rialzi dei tassi del 2011». BofA, Citi e Barclays hanno evidenziato il pericolo di una Bce in stile 2011. Lagarde rischia così di essere ricordata per aver ripetuto l’errore del predecessore Trichet. (riproduzione riservata)
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