Secondo l’ISTAT in chiusura d’anno il sistema delle imprese recupera solidità ed è ottimista per l’anno in corso

Oltre l’80% delle imprese, che rappresentano più del 90% del valore aggiunto, prevedono di trovarsi in una situazione di completa (41,3%) o parziale (39,5%) solidità entro la prima metà del 2022. Poco più del 3% si giudica invece gravemente a rischio.

E’ quanto emerge dalla terza edizione della rilevazione speciale ISTAT “Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19”, che aggiorna le informazioni raccolte nelle precedenti edizionii misurando comportamenti e strategie delle imprese a quasi due anni dall’inizio della pandemia.

Nonostante la ripresa produttiva, la crisi sanitaria continua a generare un clima di incertezza e necessità di veloci assestamenti nelle strategie e repentini cambiamenti nelle aspettative degli operatori. In questo Report vengono diffuse tempestivamente evidenze statistiche di elevata qualità su come le nostre imprese stanno vivendo questa fase delicata.

I dati  presentati offrono un quadro dell’andamento economico, delle politiche del personale e di finanza aziendale messe in atto dalle imprese nella seconda metà del 2021, con attenzione alle dimensioni dello smart working e all’utilizzo di canali di vendita digitali.

Vengono inoltre messe a fuoco le strategie e le criticità individuate dalle imprese fino a giugno 2022 oltre a informazioni su investimenti, piani di sviluppo e posizionamento sul mercato. La rilevazione ha interessato un campione di 90.461 imprese con 3 e più addetti attive nell’industria, nel commercio e nei servizi, rappresentative di un universo di circa 970mila unità: corrispondono al 22,2% delle imprese italiane ma producono il 93,2% del valore aggiunto nazionale e impiegano il 75,2% degli addetti (13,1 milioni) e il 95,5% dei dipendenti. E’ quindi un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo.

Tra le imprese oggetto di indagine sono 753 mila, il 77,6% del totale, le micro-imprese con 3-9 addetti in organico mentre le piccole (10-49 addetti) sono189mila (il 19,5%). Le medie imprese sono circa 24mila (50-249 addetti) e le grandi 4mila (250 addetti e oltre). Più della metà delle imprese è attiva al Nord (il 28,7% nel Nord-ovest e il 22,7% nel Nord-est), il 21,3% al Centro e il 27,3% nel Mezzogiorno. Il 69,9% opera nei servizi, di cui il 24% nel commercio, il 19,1% nell’industria in senso stretto e l’11,0% nelle costruzioni.

Il 90,9% delle imprese in piena attività

Nella rilevazione, il 90,9% delle imprese ha dichiarato di essere in piena attività e il 5,9% di essere parzialmente aperto, svolgendo l’attività in condizioni limitate in termini di spazi, orari e accesso della clientela. Il 3,1% ha invece dichiarato di essere chiuso: si tratta di circa 30 mila imprese, che pesano per il 2,1% dell’occupazione. Di queste, 18mila prevedono di riaprire mentre 12mila (pari all’1,2% delle imprese e all’1,0% degli occupati) non prevedono una riaperturaii.

Il dato è decisamente più contenuto rispetto a quello rilevato nella precedente edizione dell’indagine, quando le imprese chiuse erano più di 70mila (il 7,1% del totale). Le quote di imprese chiuse restano molto elevate nei servizi di alloggio (6mila, il 29,8% del settore) e in quelli sportivi, ricreativi e di divertimento (2mila pari al 26,6%).

L’incidenza è significativa anche nel trasporto marittimo (9,9%) e nella ristorazione (8,5%). Nel complesso le micro-imprese (3,7%) e le unità che operano nel Nord-est (4,0%) e nel Mezzogiorno (3,6%) presentano una incidenza di imprese chiuse superiore agli altri segmenti dimensionali e territoriali.

Rischi per la ripresa da criticità nelle filiere produttive e debolezza della domanda

Nel contesto autunnale, con un rischio minore di ritorno dell’emergenza sanitaria, più di un terzo delle imprese (35,2%, con 35,7% di occupazione e 36,8% di valore aggiunto) non ha segnalato particolari ostacoli ai piani di sviluppo nel primo semestre del 2022. L’assenza di fattori frenanti è più frequente tra le grandi (37,6% del totale) e le micro-imprese (37,1%), rispetto a quanto riscontrato nelle piccole (28,6%) e medie (29,1%). Dal punto di vista settoriale, una minore rilevanza dei fattori critici viene segnalata dalle attività del commercio (35,9%) e degli altri servizi (41,0%), in particolare in quelli immobiliari (45,4%), professionali (49,2%) e della sanità e assistenza sociale (44,2%).

Tra le criticità, le imprese segnalano con maggiore frequenza quelle legate all’approvvigionamento degli input produttivi (24,3%), alla debolezza della domanda (23,8%) e ai problemi di reperimento e formazione del personale (23,6%). Le difficoltà connesse alla liquidità e alle fonti di finanziamento sono considerate rilevanti solo dal 15,7%, a conferma di una tendenza alla riduzione del loro impatto: a dicembre 2020 le unità produttive in carenza di liquidità erano il 34,1%, a giugno 2020 più della metà.

Colli di bottiglia nell’approvvigionamento di input produttivi e interruzione delle filiere di produzione colpiscono con maggiore incidenza le piccole (32,8%) e medie (37,7%) classi dimensionali e le imprese dell’industria in senso stretto (41,6%) e delle costruzioni (34,0%). I problemi di reperimento e formazione del personale impattano in misura più ampia sulle medesime dimensioni aziendali (33,0% delle piccole e 32,4% delle medie) e in maniera comunque rilevante sugli stessi comparti (24,2% nell’industria e 34,1% nelle costruzioni).

La debolezza della domanda (interna ed estera) influisce in modo sostanzialmente omogeneo per classe dimensionale (20,3% delle grandi, 23,9% delle micro) mentre tra i settori viene segnalata con maggiore frequenza nell’industria in senso stretto e nel commercio (32,2% e 32,4%)i. Considerando anche la condizione di solidità/rischio, si può cogliere quali fattori critici impattino in maniera differenziale sulle diverse classi. In primo luogo, tra le imprese più solide circa il 40% non denuncia particolari criticità contro il 15,4% delle più fragili. Se da un lato le criticità legate ai processi produttivi e al mercato del lavoro non influenzano in misura significativamente diversa le imprese solide e fragili, dall’altra, la debolezza della domanda e i problemi di liquidità sono molto più pervasivi per le imprese che si definiscono a rischio.

In particolare, la prima è segnalata dal 40,1% delle imprese in condizione di rischio grave o parziale a fronte del 19,9% di quelle solide o parzialmente solide, mentre la liquidità e il finanziamento sono problematici per il 32,5% delle prime e l’11,8% delle seconde. Per comprendere la complessità della crisi è inoltre importante prevederne il corso e la durata. In tale contesto più di sette imprese su dieci dichiarano di non essere in grado di valutare l’orizzonte temporale dei fattori di rischio segnalati. L’incertezza si mostra particolarmente pervasiva nelle imprese più fragili (82,8% dei rispondenti) mentre il 10% di quelle solide (contro l’1,9% delle imprese a rischio) prevede che i fattori critici non si protrarranno oltre il primo trimestre del 2022.

Le esigenze finanziarie più spesso soddisfatte con strumenti propri

L’attuale fase di ripresa ciclica si riflette nel quadro degli strumenti finanziari scelti dalle imprese per soddisfare il proprio fabbisogno di risorse. Tra giugno e novembre 2021 la metà delle unità attive con almeno 3 addetti (49,8%, pari a 477mila imprese con 5,7 milioni di addetti) ha dichiarato di non avere avuto bisogno di ricorrere ad alcuna delle fonti indicate, percentuale in deciso aumento rispetto al 28,9% di un anno primavi .

Il legame con la capacità di intercettare la ripresa è evidente: la quota di chi non ha utilizzato alcuno strumento è pari a circa il 61% per le imprese che ritengono solida la propria attività almeno fino a giugno 2022, scende intorno al 46% tra chi la ritiene parzialmente solida, a circa il 33% per chi la percepisce parzialmente a rischio e a meno del 30% per le imprese che si considerano a rischio chiusura.

Coerentemente con il generale miglioramento del quadro economico e della liquidità aziendale, nella seconda metà del 2021 le esigenze di finanziamento hanno trovato principale risposta nell’utilizzo di attività liquide presenti in bilancio, segnalato dal 21,4% delle imprese (ma da oltre un quarto di quelle a rischio e da meno del 20% di quelle solide). Le altre fonti utilizzate con maggiore frequenza sono i prestiti bancari assistiti da garanzia pubblica (14,0%), i margini disponibili sulle linee di credito (13,6%) e la modifica delle condizioni contrattuali con fornitori (9,8%) e clienti (5,2%). In molti casi, tuttavia, l’utilizzo di tali strumenti nel periodo coperto dall’indagine appare ancora dettato dall’esigenza di reagire alle conseguenze della pandemia, poiché la quota di chi ne ha usufruito risulta sempre crescente ‒ in misura a volte considerevole ‒ all’aumentare del rischio percepito per la propria attività.

Solo un segmento molto esiguo di imprese, pari allo 0,5% (circa 4.600, con un’incidenza pari all’1,5% tra quelle di maggiori dimensioni) si è rivolto a strumenti di finanziamento più evoluti e alternativi al debito bancario come obbligazioni, crowdfunding, piattaforme di prestito peer-to-peer (P2P). La quota è in sensibile diminuzione rispetto all’1,4% registrato dalla rilevazione di novembre 2020 e al 5,4% riscontrato a maggio 2020. L’elemento dimensionale è meno netto rispetto alle passate edizioni dell’indagine. Tuttavia, l’incidenza di chi dichiara di non avere utilizzato alcuno strumento supera il 50% tra le micro-imprese, scende al 43,4% tra le piccole, al 37,3% tra le medie e al 38,7% tra le grandi.

Medie e grandi unità segnalano invece con maggiore frequenza il ricorso alla liquidità disponibile (38% in entrambi i casi, a fronte del 19,1% per le imprese con 3-9 addetti), ai margini sulle linee di credito (rispettivamente 19,2% e 18,7%) e al credito bancario non assistito da garanzia pubblica (7,4% e 8,8%). L’utilizzo del credito con garanzia pubblica è scelto soprattutto da imprese micro, piccole e medie. In una prospettiva settoriale, le attività liquide presenti in bilancio hanno sostenuto soprattutto l’attività delle imprese dei comparti energetico (36,0%), estrattivo (31,4%), di arte, sport e intrattenimento (30,4%) mentre i margini disponibili sulle linee di credito sono stati indicati tra i principali strumenti di sostegno finanziario dalle imprese delle costruzioni (16,2%) e, nell’industria, da quelle della filiera del tessile, abbigliamento e pelli (rispettivamente 21,0%, 18,4% e 19,6%) e nei settori della stampa (22,7%), metallurgia (22,2%) e autoveicoli (20,8%).

Nel terziario, questa modalità di finanziamento è indicata soprattutto dalle imprese che operano nell’assistenza sociale non residenziale (24,2%), nelle attività creative e artistiche (23,6%), nella pubblicità e ricerche di mercato (21,1%). Al credito assistito da garanzia pubblica, infine, hanno fatto ricorso in misura relativamente maggiore le imprese di alcuni servizi duramente colpiti dalla crisi come alloggio e ristorazione (18,4%, 21,5% nel caso dei servizi di alloggio), agenzie di viaggio (27,6%), attività sportive e di intrattenimento (19,4%) oltre a quelle di alcuni settori manifatturieri come pelli (23,4%), metallurgia (19,5%), autoveicoli (19,3%). Come già segnalato, la metà delle imprese dichiara di non avere utilizzato alcuno strumento; questo avviene con un’incidenza più elevata nel comparto dei servizi di mercato, in particolare nelle attività assicurativo-finanziarie (63,7%), nella somministrazione di personale (62,8%), nei servizi immobiliari (61,9%) e di informazione e comunicazione (55,8%).

Richieste di prestiti soprattutto per finanziare l’attività corrente

Ha fatto ricorso a prestiti in forma di credito bancario o di strumenti di finanziamento ad esso alternativi il 21,9% delle unità con almeno 3 addetti, con incidenze comprese tra il 18,5% per le grandi imprese e il 25,6% per le medie. Tali quote crescono all’aumentare del grado di rischio percepito dall’impresa: da circa un quinto per chi ritiene che, su un orizzonte semestrale, la propria attività sia sostanzialmente solida a circa il 30% per coloro che la ritengono tendenzialmente a rischio. Come nella precedente indagine, anche nella fase attuale i prestiti vengono richiesti in primo luogo per finanziare l’attività corrente: per oltre l’87% delle imprese tale finalità è “importante” o “molto importante” (sostanzialmente in linea con la precedente rilevazione). Per il resto, il 62,2% delle imprese ha chiesto prestiti per coprire costi fissi non comprimibili come i canoni di locazione, il 58,2% per ripagare i debiti, il 54,6% per costituire scorte di liquidità e un terzo per finanziare la riconversione della attività. La finalità appare correlata al grado di solidità percepito dall’impresa. Da un lato le unità che ritengono la propria attività almeno parzialmente solida tendono a chiedere prestiti per costituire un cuscinetto precauzionale di liquidità con una frequenza pari al 56,2%, poco maggiore di quella (49,9%) delle imprese che si dichiarano almeno parzialmente a rischio. Diversa è la distribuzione per tutte le altre finalità considerate, con divari evidenti soprattutto per la copertura dei costi fissi incomprimibili (80,9% per le seconde a fronte di 55,6% per le prime) e il rimborso dei debiti (77,0% e 51,6%). Coerentemente con quanto sin qui visto, ricorrono con maggiore frequenza ai prestiti le imprese di minore dimensione. Se si esclude la finalità di supporto dell’attività corrente (indicata comunque da quasi l’80% delle grandi imprese), la componente dimensionale di tale scelta emerge soprattutto per la copertura dei costi fissi ‒ rilevante per quasi due terzi delle micro-imprese, oltre la metà delle piccole e per poco più di un terzo delle grandi ‒ e per ripagare i debiti (62,1% delle micro e 34,8% delle grandi).

Le differenze settoriali nell’utilizzo di prestiti per finanziare l’attività corrente non sono molto ampie, in quasi tutti i settori questa finalità è rilevante per almeno tre quarti delle imprese. Al contrario, l’esigenza di coprire costi incomprimibili viene richiamata con maggiore frequenza in alcune attività del terziario, in particolare agenzie di viaggio (86,1%), istruzione (81,6%), alloggio e ristorazione (81,0%), attività artistiche e di intrattenimento (74,2%). Il comparto dei servizi si distingue inoltre per una maggiore incidenza dell’utilizzo di prestiti per il rimborso dei debiti accumulati; è il caso, ad esempio, dell’alloggio e ristorazione (71,0%) e degli altri servizi alla persona (63,3%). La necessità di costituire scorte di liquidità rappresenta invece una motivazione rilevante per i servizi di mercato, come quelli di somministrazione di personale (85,4%), attività postali e di corriere (84,5%), attività editoriali (71,6%) e professionali (in misura prossima al 60%). Nell’industria questa finalità è importante per quasi tre quarti delle unità del settore dei computer e beni elettronici e da quasi due terzi di quelle della farmaceutica. Infine, a chiedere prestiti per la riconversione dell’attività sono in prevalenza le imprese attive nei settori di gestione dei rifiuti e rete fognaria (oltre il 40%), ristorazione (43%), lotterie e case da gioco (47,5%).

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