L’IMPORTANZA DEI FONDI INTERPROFESSIONALI NELLA TRASFORMAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO
I partecipanti al digital debate organizzato da Fonarcom in collaborazione con Consenso Europa il 18 febbraio
«In un contesto economico e sociale di profondi cambiamenti il legislatore ha individuato nelle confederazioni datoriali e sindacali i nuovi attori protagonisti della costruzione del Welfare secondario. I dirigenti sindacali, investiti dei nuovi ruoli assegnati dalle norme sopravvenute nell’ultimo ventennio, hanno dato prova di capacità di costruzione e di gestione dei fondi interprofessionali, dei fondi sanitari e di tutti gli altri organismi bilaterali che costituiscono i pilastri del mercato del lavoro». Esordisce così Andrea Cafà, presidente del fondo interprofessionale Fonarcom e dell’associazione datoriale Cifa Italia, al digital debate I nuovi modelli organizzativi nella transizione digitale, organizzato da Fonarcom in collaborazione con Consenso Europa venerdì 18 febbraio.

Ora, è importante capire quale ruolo i fondi avranno nell’immediato futuro e in che direzione si dirigeranno. L’auspicio è che si vada verso una maggiore collaborazione tra il pubblico e il privato. Dato che i fondi interprofessionali per loro natura sono più vicini ai lavoratori e agli imprenditori e più presenti sul territorio, la loro compartecipazione alla gestione delle nuove risorse stanziate per la formazione, anche grazie al Pnrr, garantirebbe il coinvolgimento delle micro, piccole e medie imprese.

Va qui ricordato che un esempio interessante di partenariato pubblico-privato si è realizzato nel cosiddetto «secondo welfare», che è poi l’insieme delle politiche sociali garantite dalla contrattazione e dal privato a integrazione e sostegno del servizio pubblico. Ora, considerati i cambiamenti socio-economici che stiamo vivendo, e considerato il loro impatto sulla vita professionale e personale di ciascuno di noi, è ancora più importante poter contare su misure di welfare secondario attuate mediante la contrattazione collettiva. Queste misure devono diventare uno dei pilastri del futuro, in alleanza con il welfare pubblico, come ha evidenziato nel suo intervento Cesare Damiano, direttore scientifico dell’Osservatorio del lavoro Cifa-Confsal e già ministro del Lavoro. Non si tratta di contrapporre il privato al pubblico, ma piuttosto di far sì che le misure proposte in ambito privato diventino complementari e sinergiche con gli interventi pubblici, nella prospettiva di un generale rinnovamento che porterà allo sviluppo di nuovi modelli organizzativi.

Tutto questo apre anche a una riflessione sui livelli di rappresentanza datoriale e sindacale nel nostro Paese. Ancora oggi, nel censimento della rappresentatività delle parti sociali non si tiene conto di un fatto importante, cioè che molte aziende e moltissimi lavoratori, pur non essendo iscritti ad associazioni datoriali e sindacali, aderiscono ai rispettivi sistemi bilaterali, dove trovano riscontro alle proprie esigenze. Di fatto, i criteri di misurazione della rappresentatività cui continuiamo a fare riferimento sono stati individuati dalla giurisprudenza negli anni Novanta del secolo scorso, quando ancora il legislatore non aveva previsto l’istituzione dei fondi interprofessionali o demandato determinate funzioni agli enti bilaterali. Non risulta quindi difficile capire quanto sarebbe opportuno strutturare un nuovo modello di rappresentatività sindacale, in cui venga considerata anche la presenza degli organi bilaterali e dei relativi iscritti. Del resto, se è vero che il lavoro sta cambiando, in ragione di fattori tecnologici, sociali, culturali e demografici, allora devono cambiare anche le dinamiche della rappresentanza e della contrattazione collettiva per andare verso un nuovo modello di relazioni industriali.

Con la pandemia abbiamo scoperto come la tecnologia digitale sia in grado di mettere in discussione due elementi fondanti del lavoro nella società industriale: il tempo e lo spazio. Questo chiama ancor più in causa il ruolo delle parti sociali e quello della formazione, come ha sottolineato Romina Mura, presidente della XI Commissione lavoro della Camera. Nuovi modelli organizzativi impongono la diffusione di competenze nuove e rinnovate. Il ricorso massivo al lavoro da remoto durante la fase pandemica ha evidenziato quanto grande sia ancora il digital divide nel nostro Paese in termini di infrastrutture e di competenze. Come affermato nel corso dell’evento dal sottosegretario al lavoro, Tiziana Nisini, sul fronte del capitale umano l’Italia è un po’ il fanalino di coda negli indici europei, dato che si trova al 25esimo posto su 27. I dati diffusi dall’Istat hanno infatti mostrato che, nella fascia di popolazione tra 16 e 74 anni, solamente il 42% degli italiani ha competenze digitali di base, contro una media europea del 56%. Se poi ci spostiamo sulle competenze digitali avanzate, l’Italia si attesta intorno al 22%, contro una media europea del 31%.

Nel corso del dibattito è stato ribadito da tutti i relatori quanto la formazione, anche e soprattutto in ambito digitale, sia fondamentale anche sul fronte di una cittadinanza attiva, oltre che per accedere al lavoro, per conservarlo e per ritrovarlo. Il presidente Igf Italia, l’onorevole Mattia Fantinati, ha aggiunto altri dati significativi: nel giro di 10 anni, circa il 30% dei lavori oggi conosciuti rischia di scomparire e un restante 40% sarà completamente trasformato. Tutto porta a concludere che occorra prepararsi su tutti i fronti – anche su quello legislativo – non solo per riformare gli ammortizzatori sociali e le politiche attive del lavoro, ma anche per cambiare la struttura contrattuale, trovando soluzioni atte ad accompagnare le trasformazioni.

In questo scenario sarà fondamentale, continua Fantinati, che la politica e tutte le istituzioni che gravitano attorno ai temi del lavoro preservino e sviluppino le competenze tecnico-specifiche, ma soprattutto quelle di base (le cosiddette soft skills) che non possono essere sostituite da apparati tecnologici. È indispensabile concentrare gli sforzi per aiutare i lavoratori impiegati in posti di lavoro che, nel giro di pochi anni, scompariranno o si trasformeranno. Il primo passo da fare sarebbe ascoltare il mondo delle imprese, soprattutto per quanto riguarda figure e ruoli richiesti, come sostenuto da Fabio Ramaioli, direttore generale di Confimi Industrie.

Nell’evento del 18 febbraio si è molto parlato di Its, gli istituti tecnici superiori che, nel 2021, hanno registrato per i propri corsisti, al termine del ciclo di studi, un tasso di occupazione intorno all’80%. Quella degli Its è una realtà che va tutelata e rafforzata, avendo dimostrato di alimentare una forte sinergia tra il pubblico e il privato. Tra l’altro, ha rimarcato il segretario generale di Confsal, Angelo Raffaele Margiotta, gli Its non solo sono in grado di rispondere alle richieste del mercato del lavoro in termini di competenze, ma, in potenza, anche di sviluppare e di estendere il tessuto imprenditoriale dei territori, alimentando nuovi progetti industriali.

Mentre le figure professionali si evolvono e cambiano, anche le parti sociali devono cambiare al fine di garantire un’adeguata rappresentanza e le dovute tutele alle nuove figure nascenti. «L’importante è che il fattore umano resti centrale anche in piena digitalizzazione» ha ribadito Margiotta.
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