di Luca Gualtieri
Se è vero che le piccole e medie imprese rappresentano la spina dorsale del sistema produttivo italiano, il loro ruolo sarà decisivo per consolidare la ripresa economica iniziata sul finire della pandemia. Tale ruolo sarà naturalmente agevolato dalla fluidità dei canali di finanziamento, a partire da quello bancario che rimane la principale fonte di provvista. Da questo punto di vista però le notizie non sono positive. Un report appena realizzato da PwC e Banca CF+ dimostra che nei dieci anni che hanno preceduto la pandemia il credito bancario alle pmi italiane (che rappresenta il 20% degli impieghi complessivi alle aziende non finanziarie) si è ridotto di circa 40 miliardi, passando dai 210 miliardi del 2010 ai 171 miliardi del 2019 e registrando così una contrazione del 20%. Come evidenzia il grafico pubblicato a fianco, la caduta è stata graduale ma costante e solo nel 2020 si è registrata una significativa inversione di tendenza, dovuta sostanzialmente alle misure di sostegno messe in campo per contrastare l’effetto del Covid. Il report mostra infatti che, nel corso del primo anno di pandemia, i finanziamenti verso le pmi hanno recuperato terreno e sono cresciuti dell’11% arrivando a toccare i 190 miliardi. Il progressivo ritiro delle misure nel corso di quest’anno rappresenta però un’incognita su cui molti imprenditori si stanno interrogando. Occorre peraltro registrare che al calo del credito fa fronte una crescita sostenuta sia del numero che dei ricavi delle pmi. Questi ultimi sono passati dai 901 miliardi del 2012 ai 952 miliardi del 2019 (cifra che sale a 1.116 miliardi, includendo anche le mid cap), a dimostrazione dell’espansione registrata nell’ultimo decennio.

A quali cause è riconducibile il progressivo restringimento del credito bancario alle pmi? Indubbiamente le fasi recessive di inizio decennio hanno inciso sulla domanda di credito, per via della riduzione degli investimenti. Un ulteriore elemento di criticità è stato la stretta regolamentare imposta dalla Vigilanza Unica negli anni scorsi. Finanziare imprese con rating bassi è diventato molto oneroso per le banche tradizionali che hanno oggi maggiore convenienza a fare credito alle realtà più sicure, trascurando le altre. Il problema è particolarmente serio per le pmi. Lo studio di PwC e Banca CF+ attesta infatti che il 77% delle piccole e medie imprese italiane ha un rating compreso tra C e BB (sub-investment grade). Tale rating non deriva tanto dal limitato potenziale industriale, quanto soprattutto dalla struttura finanziaria sub-ottimale, con un livello di leva generalmente piuttosto alto. Tradotto: in media i piccoli imprenditori italiani preferiscono finanziarsi a debito piuttosto che a equity. Va peraltro osservato che, nel primo anno della pandemia, anche al netto delle misure di sostegno messe in campo dal governo, si è registrato un deciso deterioramento dei rating e un forte aumento delle classi più basse, come dimostra il secondo grafico in pagina.

Da chi sarà compensata la parziale ritirata della banche italiane dal mondo delle piccole imprese? Alcuni osservatori ritengono che il trend appena descritto possa rappresentare un’opportunità per gli intermediari di nuova generazione, dalle fintech agli istituti specializzati fino alle challenger bank. Queste realtà infatti devono affrontare costi di funding superiori a quelli sostenuti dagli istituti tradizionali e quindi hanno una fisiologica fame di rendimenti. Rendimenti che proprio il vastissimo bacino delle pmi italiane può offrire, come del resto già sta avvenendo in altri paesi europei. «In Italia abbiamo oltre 200 mila pmi con un fatturato compreso tra 2 e 100 milioni, imprese che hanno bisogno di credito, a maggior ragione in una fase di rilancio come quella che ci aspetta nei prossimi anni. Il sistema bancario si è allontanato da questo segmento nel corso dell’ultimo decennio: dal 2010 al 2019 il credito verso le pmi si è ridotto di circa il 20%: si tratta di 40 miliardi in meno di credito nei dieci anni», spiega a MF-Milano Finanza Iacopo De Francisco, amministratore delegato e direttore generale di Banca CF+. «Nel 2020, grazie all’espansione dei finanziamenti con garanzia statale, si è osservata un’inversione di tendenza, ma siamo ancora di fronte a un gap strutturale tra domanda e offerta di credito per le pmi italiane. Le garanzie fornite dai fondi centrali di garanzia hanno di fatto funzionato come un vero e proprio sussidio esterno, che ha compensato la bassa capitalizzazione strutturale del segmento», continua il banchiere che avverte: «La rivisitazione, peraltro necessaria, dei meccanismi di garanzia pubblica non potrà prescindere da un fatto: senza la garanzia una buona parte delle pmi farebbe fatica ad accedere al credito per supportare le proprie necessità». De Francisco ricorda peraltro come proprio l’attento esame di questi trend di mercato è alla base del progetto di CF+. «Siamo un istituto dedicato alle pmi, fornisce credito con diversi prodotti (factoring, finanza garantita e non, acquisto crediti fiscali) dando risposte professionali e rapidissime: se oggi un’azienda deve attendere fino a sei mesi di tempo per ottenere un’erogazione di credito da parte di una banca tradizionale, Banca CF+ punta a farlo anche in 30 giorni. Il segmento delle challenger bank, di cui l’istituto è uno degli operatori focalizzati sull’impresa e più innovativi, potrà contribuire a colmare, almeno in parte il gap di credito alle pmi. Sicuramente un po’ di concorrenza alle banche ordinarie aiuterà», conclude De Francisco. (riproduzione riservata)
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