La pandemia come ha cambiato l’approccio alla pianificazione e protezione del patrimonio? Risponde Loconte, giurista e pioniere in Italia dello storico veicolo anglossassone
di Alessandro Carollo
Fondatore e managing partner dello Studio legale e tributario Loconte & Partners, Stefano Loconte è avvocato cassazionista ed esperto di diritto societario e fiscale, ma soprattutto è esperto in ambito del diritto dei Trust, che ora considera, citando la Cassazione, un istituto tipico dell’ordinamento italiano. Con MF-Milano Finanza ha parlato dei nuovi approcci post covid al wealth planning, la pianificazione non solo finanziaria ma patrimoniale.

Domanda. La pandemia e la crisi hanno modificato l’approccio degli italiani ai temi della pianificazione e della protezione del patrimonio?

Risposta. Si, in maniera direi penetrante. Da un lato l’impatto del virus ha messo davanti agli occhi degli italiani la paura di morire e quindi ha accelerato il processo decisionale finalizzato a evitare una trasmissione del patrimonio agli eredi in maniera disordinata e foriera di problemi tra loro. Dall’altro, la crisi economica ha fatto emergere la paura di poter perdere il patrimonio a causa di un’attività imprenditoriale o di lavoro autonomo che, improvvisamente, non era più così florida come prima o diventata in perdita; a questo si è unito il timore di vedere il proprio patrimonio aggredito da imposte patrimoniali o da un inasprimento della pressione fiscale complessiva legata all’esigenza dello Stato di fare cassa.

D. Come hanno reagito i clienti davanti a tali situazioni?

R. Relativamente al primo aspetto abbiamo assistito a un incremento esponenziale nella redazione di testamenti e realizzazione di operazioni societarie straordinarie finalizzate a strutturare i veicoli societari in funzione del passaggio generazionale in favore dei figli e discendenti. Tutto ciò è stato fortemente agevolato da un insieme di norme che, soprattutto sotto il profilo fiscale, incentivano questa tipologia di operazioni, attraverso la riduzione o addirittura la completa eliminazione del carico fiscale a esse collegato; si pensi alla disciplina sul cosiddetto «realizzo controllato» in caso di conferimento di partecipazioni in nuove holding, spesso abbinata alla esenzione fiscale del trasferimento delle quote di società in favore di coniugi e discendenti.

D. E sulla protezione del patrimonio?

R. Qui c’è stato un repentino ricorso a strumenti giuridici di protezione: dai vecchi fondi patrimoniali (che, in realtà, proteggono poco ma storicamente sono sempre stati apprezzati dagli italiani) alle polizze assicurative relative agli attivi di natura finanziaria. Per la parte immobiliare si è fatto ricorso alla costruzione di veicoli societari di vario tipo e natura in funzione della tipologia di immobili e degli obiettivi del cliente. Abbiamo poi finalmente visto un forte interesse in favore dell’utilizzo del trust.

D. Ha parlato di possibili patrimoniali e di un inasprimento della pressione fiscale. Ma qui ci sono reali strumenti di protezione?

R. Impossibile proteggersi da qualcosa che non esiste e che, pertanto è impossibile conoscere. Qualsiasi riflessione in merito non potrebbe trovare alcun tipo di soluzione concreta. In generale è possibile dire che l’uso dei veicoli societari è più efficiente dell’intestazione dei patrimoni in capo alle persone fisiche ma, come detto, è una riflessione di carattere veramente generale e in questo contesto, invece, si opera con un grado di elevatissima caratterizzazione della posizione del cliente. L’approccio olistico al patrimonio del cliente e alla sua strutturazione e gestione richiede una analisi analitica di tutte le esigenze del cliente e della sua famiglia, unitamente a quella della composizione qualitativa e quantitativa del suo patrimonio. Per usare un paragone non originale, stiamo parlando di uno splendido abito su misura, ma sappiamo bene come va a finire se le misure non vengono prese in maniera corretta.

D. Ritorno di interesse per il trust: i tempi sono maturi per un utilizzo più ampio anche all’interno del territorio italiano?

R. Partendo dal presupposto che l’uso dei trust è sempre più diffuso e apprezzato, la risposta è affermativa. La Corte di Cassazione ha anche detto che dobbiamo ormai considerarlo un istituto tipico dell’ordinamento italiano. In generale sono convinto che gli italiani sono pronti ad affrontare una sorta di mantra della pianificazione patrimoniale: proprietà, gestione e godimento, che non necessariamente fanno capo alla stessa persona. Non è importante essere proprietari dei beni, ma poterli gestire e poterne godere. Il trust riesce a realizzare tutto questo in maniera perfetta, allocando proprietà, gestione e godimento su soggetti diversi e, soprattutto, consentendo di destinare la proprietà al raggiungimento degli obiettivi, ovviamente meritevoli di tutela e legittimi, che il proprietario del patrimonio ha voluto realizzare nel momento in cui ha apportato i beni al trust con la sua costituzione.

D. Che cosa manca per chiudere il cerchio?

R. Manca ancora un po’ di consapevolezza e la cultura della pianificazione patrimoniale. Come tutti i fenomeni culturali serve tempo per metabolizzarli. Sui trust, per esempio, è ancora difficile o non agevole aprire delle relazioni bancarie, poiché diversi istituti ne hanno ancora paura, a causa di regole non sempre chiare e/o mancanti e dell’uso strumentale e patologico del trust negli anni passati. Tutto quello che non si riesce a conoscere a fondo fa paura. In tal senso è di sicuro rilievo l’attività che sta sviluppando l’Associazione Italiana Private Banking che ha costituito un gruppo di lavoro, da me coordinato, con la funzione di individuare delle best practice per l’apertura delle relazioni bancarie in favore dei trust, da sottoporre alla validazione delle autorità competenti (Mef, Banca d’Italia e Agenzia delle Entrate) per poter individuare un perimetro in cui poter operare in sicurezza. E’ un’iniziativa sicuramente ambiziosa, ma siamo tutti molto fiduciosi sul suo buon esito e sul conseguente valore aggiunto.

D. Chi sono i protagonisti di questo cambiamento culturale?

R. Sono sicuramente i professionisti e gli intermediari finanziari. I primi hanno una grossa responsabilità perché sono i depositari della cultura giuridica e hanno il compito di trasmettere ai clienti tutti gli elementi tecnici su cui poter costruire il loro cambiamento culturale. Ovviamente si può trasmettere qualcosa che si conosce e si padroneggia in maniera piena e completa; i temi della pianificazione patrimoniale sono ampi e complessi, richiedono conoscenze trasversali, dal diritto civile a quello tributario, passando per il societario, il penale e l’antiriciclaggio. Gli intermediari, invece, nel senso ampio del termine, hanno la relazione con il cliente, ci parlano costantemente e, quindi, hanno l’opportunità di poter intercettare le loro esigenze e, conseguentemente, mettere in moto la macchina per poterli soddisfare. Per gli intermediari la sfida è passare da gestori del patrimonio finanziario a gestori del patrimonio. La sola gestione finanziaria, mutuando il contesto internazionale, diventerà una mera commodity. (riproduzione riservata)

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