di Dario Ferrara
L’amministratore delegato in conflitto d’interessi è tenuto a investire della questione l’organo collegiale della società, informandolo delle vicende personali che lo legano all’operazione da compiere: dovrà essere il consiglio di amministrazione a deliberare di procedere nell’affare motivando sulla convenienza per la società. Lo stabilisce l’ordinanza 28718/20, pubblicata dalla prima sezione civile della Cassazione.

Nomina e revoca. Accolto il ricorso proposto dalla società per azioni contrapposta nella lite all’ex ad e presidente del consiglio di amministrazione. La spa pretende di essere risarcita per l’inadempimento dei doveri del manager che mentre era al timone della società avrebbe aperto una filiale senza l’autorizzazione dell’azionista di maggioranza. Il tutto per favorire l’impresa del fratello che opera nello stesso settore. Sbaglia la Corte d’appello a escludere la responsabilità dell’amministratore sul rilievo che l’iniziativa gli sarebbe consentita dai poteri gestori desumibili dalla visura camerale. Risulta escluso che si possa configurare la responsabilità solo perché l’amministratore disattende le direttive della proprietà. Ciò perché l’azionista di riferimento probabilmente non ha il potere di impartirgliele: una volta nominato, l’amministratore ha solo i doveri indicati dalla legge e dallo statuto; non esiste invece un vincolo fra i soci o la maggioranza di essi e l’amministratore. Il rapporto è fra la società e il manager: la prima non ha un potere di direttiva sul secondo, mentre scatta la revoca per giusta causa se viene meno la fiducia.

Lealtà e diligenza. Sta sempre sulla parte che promuove l’azione di responsabilità, d’altronde, dimostrare che i comportamenti degli amministratori sono illeciti. E l’illecito può essere integrato dalla violazione del dovere di lealtà, che coincide con il precetto di non agire in conflitto d’interessi con la società amministrata, oppure del dovere di diligenza, che consiste nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali affidati. Il tutto sempre che le condotte addebitate non siano vietate in sé dalla legge oppure dallo statuto della compagine. Senza dimenticare che gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili per i rischi che l’impresa normalmente corre durante tutta la sua vita: ai manager, dunque, non può essere addossato il risultato negativo dell’attività sociale o di singoli atti correlati. Insomma, le scelte gestionali sono insindacabili (business judgement rule). In particolare all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cc di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico: la valutazione rientra nella discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Il tutto anche quando le modalità e le circostanze delle scelte di gestione presentano profili di rilevante alea economica. Restano sindacabili l’omissione di verifiche e cautele oltre che la diligenza mostrata nell’apprezzare i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.

Condotta imprudente. Il principio dell’insindacabilità degli atti di gestione recede di fronte all’atto compiuto dall’amministratore che una natura palesemente arbitraria, indipendentemente dai poteri conferiti all’interessato e dalla giustificabilità o no sotto il profilo gestionale. Nel caso di specie l’errore compiuto dalla Corte d’appello sta nel non verificare se la condotta addebitata al manager sia «manifestamente avventata e imprudente». E ciò a maggior ragione di fronte all’ipotesi di conflitto di interessi nell’operazione che finisce per favorire un familiare. Parola al giudice del rinvio, che dovrà verificare quali fossero le informazioni in possesso dell’amministratore delegato quando ha aperto la filiale.

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