di Luca Gualtieri

Il destino di Ubi Banca è stato deciso in un incontro che Carlo Messina e Carlo Cimbri hanno avuto a Milano, subito prima di Natale. Un incontro di cui erano a conoscenza soltanto i più stretti collaboratori dei due ceo e che, come tutta la strutturazione dell’ops, è stato tenuto scrupolosamente al sicuro da orecchie e occhi indiscreti. Del resto, per chi fosse avvezzo a ragionare con categorie del passato come finanza bianca e finanza rossa, già solo una colazione tra Messina e Cimbri avrebbe fatto notizia. Eppure ci sono rari momenti in cui figure culturalmente lontane mettono da parte le proprie differenze per riscrivere insieme gli equilibri della finanza. Qualcosa del genere accadde nel 1999 quando il patron di Mediobanca Enrico Cuccia offrì la sua Comit alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli decretando la nascita del gruppo che, nel giro di pochi anni, sarebbe diventato Intesa Sanpaolo. Anche Messina e Cimbri provengono da latitudini molto diverse nella geografia del potere finanziario, ma questa distanza non ha impedito ai due ceo di sedersi negli ultimi giorni di dicembre attorno a un tavolo per progettare il loro deal più ambizioso.
Chi conosce bene Cimbri sa che la testarda determinazione è la sua cifra distintiva. Ed è con questa determinazione che, dall’inizio del 2019, l’amministratore delegato di Unipol ha iniziato a ragionare sul futuro di Bper Banca, la ex popolare di cui via Stalingrado è oggi primo azionista al 19%. Nella mente di Cimbri e dell’ad di Bper Alessandro Vandelli c’era la fusione con un altro peso medio del credito italiano, un gruppo possibilmente ben patrimonializzato e posizionato nelle aree più ricche del Paese. Descrizione in cui non è certo difficile riconoscere Ubi Banca. A via Stalingrado l’impresa non deve essere sembrata proibitiva visto che anche il gruppo guidato da Victor Massiah era da tempo alla ricerca di un partner. Una volta individuato il target, a cavallo dell’estate Cimbri ha iniziato un paziente lavoro ai fianchi, rivolgendosi in prima battuta ai soci storici di Ubi. Impresa non facile se si pensa che l’azionariato del gruppo (nato 13 anni fa dalla fusione della bergamasca Bpu con la bresciana Banca Lombarda) è rimasto a lungo frammentato in una pluralità di fazioni, spesso in guerra tra loro. Tra i temi al centro di quei primi incontri c’erano certamente tematiche industriali, ma anche personalismi e inevitabili questioni di campanile. Solo per fare un esempio, qualche socio avrebbe iniziato a preoccuparsi del destino di Orio al Serio. Ubi con il suo 17,9% è infatti uno degli azionisti di riferimento dell’aeroporto bergamasco e non sorprende che la sorte di quella quota stia particolarmente a cuore al territorio. A complicare ulteriormente il quadro nel settembre scorso c’è stata la nascita del Comitato Azionisti di Riferimento (Car), un nuovo sindacato che unendo forze in passato divise ha blindato il 17,8% del capitale di Ubi. A differenza delle formazioni che lo hanno preceduto il Car si è subito imposto come un forte segnale di discontinuità nella governance della banca e così è stato inteso da Unipol e da Bper. Mese dopo mese insomma, complici i tentennamenti di Massiah, l’ipotesi di una fusione tra Ubi e Bper si è indebolita e tra novembre e dicembre la trattativa ha rischiato di impantanarsi definitivamente nelle sabbie mobili di un azionariato in trasformazione. È in questo clima di incertezza che è germogliato il seme di Intesa-Ubi.
La proposta di Cimbri a Messina nei giorni prima di Natale è stata un uovo di Colombo: in primo luogo le sinergie, sia di costo che di ricavi, sono più facili da realizzare su base nazionale che su quelle cross-border. Secondariamente con i margini da interessi bassi, una maggiore concentrazione consentirà di aumentare la redditività tradizionale. In terzo luogo Intesa ha una capacità consolidata nel settore assicurativo e nel wealth management che Ubi, da sola, non potrebbe mai raggiungere, dovendo appoggiarsi a partner dotati di know-how specifico a cui lasciare parte dei margini. Ma soprattutto l’operazione avrebbe dovuto rafforzare il sistema Italia, a cui sia Messina che Cimbri si proclamano particolarmente sensibili. Il feeling insomma è scattato subito e l’accordo tra i due ceo ha di fatto sbloccato il deal su cui si è lavorato speditamente. Mediobanca è stata attivata nei giorni immediatamente successivi e il ceo Alberto Nagel ha affidato il dossier al co-head del corporate e investment banking Francesco Canzonieri. La presenza di Piazzetta Cuccia in cabina di regia non sorprende. Al contrario certifica lo storico legame con Unipol e la più recente ma ormai consolidata vicinanza a Intesa. Non per niente la merchant ha lavorato su alcune delle ultime operazioni straordinarie di Ca’ de Sass, dall’alleanza con Intrum sui non performing loan all’accordo con Prelios per gli unlikely to pay. In via Monte di Pietà invece il deal maker dell’operazione è stato il chief governance officer Paolo Grandi, con cui hanno lavorato le strutture di Banca Imi sotto l’abile coordinamento di Mauro Micillo. Lo studio Pedersoli infine ha lavorato sulle tematiche legali, a partire dai delicati aspetti antitrust. Informato del progetto sarebbe stato anche il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco che avrebbe dato una sostanziale luce verde al deal.
Il lavoro dei diversi team ha occupato sei intense settimane tra l’inizio dell’anno e la metà di febbraio e ha conosciuto un’accelerazione negli ultimi giorni, anche per evitare bruschi riallineamenti dei titoli. Subito dopo la presentazione dei risultati di bilancio infatti le azioni di Ubi sono salite dell’11%, mettendo così a rischio la tenuta del concambio. Ecco perché domenica 16 i consigli di amministrazione di Intesa, Unipol e Bper sono stati convocati d’urgenza con un ordine del giorno tenuto riservato sino alla sera di lunedì 17. In Ca’ de Sass la riunione del board ha occupato un paio d’ore, nel corso delle quali Messina ha dettagliato struttura e finalità dell’operazione per poi incassare il via libera unanime degli amministratori.
Alla fine della riunione il banchiere avrebbe composto il numero di Victor Massiah, rimasto finora all’oscuro dell’offerta e in quel momento a Londra per una cena con gli investitori. Dopo un primo tentativo andato a vuoto, Messina avrebbe ricontattato il numero uno di Ubi informandolo, con tono cordiale ma fermo, sulle intenzioni di Intesa. Molto fredda la reazione di Massiah. Qualche istante più tardi Messina avrebbe composto altri due numeri, quello del presidente emerito Giovanni Bazoli e quello del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. La mattina successiva, prima del tour de force con gli analisti e con la stampa, la telefonata al presidente di Ubi Letizia Moratti, anche lei molto fredda sull’operazione. Nelle stesse ore Nagel contattava privatamente Grandi per complimentarsi del lavoro svolto. Pubblico invece è stato il plauso di Messina nei confronti di Canzonieri: «Se mi chiedete se è meglio Banca Imi di Mediobanca non ho dubbi, meglio Imi, ma ho stima della persona Canzonieri».
Se questa è stata la cronaca degli ultimi due mesi, il deal non può però certo considerarsi chiuso e le incognite non mancano. Il primo passaggio sarà la presentazione del prospetto alla Consob, prevista per prossimo il 7 marzo, mentre solo cinque giorni dopo la pubblicazione il cda di Ubi potrà esprimersi formalmente con il cosiddetto comunicato dell’emittente. Sebbene Messina abbia insistito sul carattere non ostile dell’offerta, il blitz ha destato parecchio scompiglio nel gruppo guidato da Massiah. Ubi del resto si stava muovendo in tutt’altra direzione e il piano industriale presentato al mercato lunedì 17 descriveva un percorso di crescita organica con, al limite, la prospettiva di un merger of equals. Più di uno i candidati, da Mps a Banco Bpm fino a quella Bper che invece ora potrebbe rivelare una fetta consistente della rete commerciale del gruppo lombardo. È comprensibile insomma che amministratori e soci siano stati fortemente contrariati dalla proposta di Intesa. In quest’ottica vanno lette le parole che il ceo di Massiah ha rivolto ai dipendenti, definendo «per nulla scontato» il sì all’offerta.
Molto freddi anche i soci riuniti nel Car che giovedì 20 hanno liquidato l’ops come «ostile e non concordata». Sicuramente, alla luce dei vincoli imposti dalla passivity rule, lo spazio di manovra del board (assistito da Federico Imbert del Credit Suisse e dall’avvocato Sergio Erede) sarà limitato ma c’è chi ritiene possibile mettere in campo manovre difensive non lesive del patrimonio dell’azienda. Tradotto: il sentiero è stretto, ma non strettissimo e nelle prossime settimane il quadro potrebbe cambiare. A fare la differenza potrebbe essere però la presentazione di un’offerta concorrente. Uno scenario auspicato da molti intorno a Ubi ma che, per ora, viene ritenuto assai improbabile. Più realistico è che si raggiunga un compromesso sul prezzo e sulle condizioni dell’integrazione. Intesa per esempio avrebbe ventilato la creazione di quattro nuove direzioni regionali, Bergamo, Brescia, Cuneo e Bari ciascuna con una rete di circa 300-400 filiali. (riproduzione riservata)

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