La Cassazione sottolinea che l’appaltante può rispondere degli eco-reati dell’appaltatore
Il committente deve verificare la gestione dei residui
Pagina a cura di Vincenzo Dragani

Il committente di opere dalla cui realizzazione derivi anche la produzione di rifiuti ha l’onere, a monte, di affidarne la relativa gestione a soggetti di cui ha verificato competenza e titoli autorizzativi, e a valle, ove mantenga il controllo sui lavori in corso, quello di verificare che le attività degli appaltatori siano condotte nel rispetto delle sottese norme ambientali applicabili. Diversamente all’appaltante potrà essere contestato, a titolo di omessa vigilanza sulla corretta attività altrui, l’eventuale gestione illecita dei rifiuti materialmente posta in essere dagli esecutori dei lavori. I principi di diritto che disegnano la delicata posizione in cui può trovarsi chi affida a terzi lavori, come quelle edili, che necessariamente comportano la generazione dei residui arrivano dalla Suprema corte di cassazione, la quale si è da ultimo pronunciata in materia con la sentenza del 13 gennaio 2020 n. 847.
Il caso. La concreta fattispecie che ha stimolato la pronuncia del giudice di legittimità coincide con l’accertamento da parte delle forze dell’ordine dell’attività, posta in essere all’interno di un cantiere edile, di spianamento di rifiuti inerti, con conseguente riempimento di una ampia depressione del suolo. Tale attività veniva posta in essere con l’ausilio di un mezzo meccanico da parte del personale di impresa incaricata direttamente dal proprietario dell’area di eseguire lavori edificatori. All’esito dell’accertamento dei fatti il giudice di prime cure contestava (anche) al proprietario del fondo committente dei lavori il reato di realizzazione di discarica abusiva.
Il contesto normativo. Con la sentenza in parola la Corte di cassazione ha effettuato una puntuale e ampia ricognizione delle norme applicabili, richiamando due nodali astratte fattispecie previste dal dlgs 152/2006: il reato di discarica di rifiuti non autorizzata (ex articolo 256) e la nozione di produttore giuridico di rifiuti (ex articolo 183, Codice ambientale). In relazione, in particolare, alla fattispecie di reato ex articolo 256, comma 3 del dlgs 152/2006, la Corte ha ricordato come, dal punto di vista oggettivo, l’elemento qualificante sia l’accumulo considerevole e ripetuto di rifiuti in una determinata area al fine di costituirne un deposito definitivo. In relazione alla nozione di produttore dei rifiuti, invece, la disposizione che viene in causa è il comma 1, lettera f) dell’articolo 183, secondo la quale è produttore di rifiuti «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (…)». In base al tenore della disposizione (come riformulata a opera della legge 125/2015) è quindi produttore di rifiuti non solo il soggetto che materialmente li genera, ma anche il soggetto nel cui interesse tale attività di generazione è operativamente (da altri) posta in essere. Tale soggetto, battezzato dalla dottrina come «produttore giuridico» di rifiuti assume ex lege la posizione di garante della loro corretta gestione da parte del «produttore materiale», posizione in forza della quale il primo ha l’onere di assicurare con la propria vigilanza che questa avvenga da parte del secondo in modo lecito. Qualora, infatti, a causa dell’omesso e rimproverabile (poiché colposo) controllo del produttore giuridico venga posta in esse una illecita gestione di rifiuti da parte di quello materiale, il primo potrà esserne chiamato a rispondere ex articolo 40 del codice penale, che prevede che: «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
I principi di diritto della Cassazione. La pronuncia 847/2020 della Corte di cassazione illustra ad ampio raggio le diverse posizioni giuridiche nelle quali il committente di opere può trovarsi nei confronti della gestione illecita di rifiuti materialmente posta in essere dall’appaltatore, suggerendo i confini della sua posizione di garanzia. Una prima ipotesi è quella in cui il committente dei lavori (nonché, come nella fattispecie in esame, proprietario del sito) non mette a disposizione dell’appaltatore alcuna area per il deposito dei rifiuti da questi materialmente prodotti, i quali vengono depositati in un luogo terzo, e non effettua altresì alcuna ingerenza sulla loro gestione. In tale ipotesi, sottolinea la Suprema corte, il committente dell’opera lasciando autonomia organizzativa e gestionale all’appaltatore, non assume nessuna posizione di garanzia e conseguente responsabilità ex articolo 40 del codice penale. Una seconda ipotesi è quella in cui il committente/proprietario del sito mette a disposizione dell’appaltatore un’area per il deposito temporaneo dei rifiuti da quest’ultimo prodotti, cedendone però allo stesso la completa disponibilità e quindi la custodia ex articolo 2051 del codice civile. Anche in questo caso, emerge dalla sentenza, il committente non conserva alcun obbligo giuridico di verificare modalità o tempistica del deposito dei rifiuti prodotti e loro gestione successiva, non avendo una posizione di garanzia ex articolo 40 citato. Una terza ipotesi è quella nella quale, al di fuori delle condizioni precedenti, il committente/proprietario mantiene comunque un controllo su lavori e gestione dei relativi rifiuti prodotti. In tale contesto il committente mantiene la posizione di «produttore giuridico» dei rifiuti (come più sopra delineata) e l’appaltatore quello di mero esecutore dell’opera commissionata nonché produttore materiale dei rifiuti. Ne consegue che il committente resta nella posizione di garanzia più sopra citata, potendo rispondere a titolo omissivo dell’illecita gestione dei residui commessa dall’appaltatore. Un’ultima ipotesi evincibile dalla sentenza in parola, e trasversale alle precedenti, è quella che vede il committente «consapevole» (dal punto di vista dell’elemento psicologico del reato) di collaborare, con il suo contegno omissivo, all’illecito posto in essere dall’appaltatore. Il tal caso egli committente potrà essere chiamato a rispondere del reato direttamente a titolo di concorso personale, ex articolo 110 del codice penale. Nel caso in esame la Corte di cassazione ha ritenuto non infondata la contestazione fatta dal giudice cautelare del reato di discarica abusiva in capo al committente dei lavori; e ciò in quanto tale contestazione, si evince dalla pronuncia, non è stata basata sulla semplice qualità dell’indagato di proprietario dell’area, ma su due elementi dai quali emergerebbe la consapevolezza che sul proprio sito avvenisse una produzione di rifiuti inerti: lo svolgimento di una attività edilizia personalmente affidata a terzi; l’avvenire tale attività su area recitata e presidiata da cancelli le cui chiavi erano nella disponibilità degli appaltatori.
Nel quadro dei più ampi oneri del detentore di rifiuti. L’onere di vigilare sull’attività dei soggetti cui sono affidate opere che comportano la produzione materiale di rifiuti non esaurisce però, come insegna la stessa Suprema corte di cassazione, il novero delle condotte esigibili dal committente dei lavori. A titolo generale ogni produttore/detentore di rifiuti che intende affidarne a terzi deve infatti anche accertare in via preventiva l’esistenza in capo ai soggetti affidandi delle necessarie competenze e autorizzazioni previste dall’Ordinamento giuridico. Diversamente, prima ancora dell’eventuale «culpa in vigilando» per l’omesso controllo sulla lecita gestione dei rifiuti da parte dei produttori materiali residui, al committente dei lavori potrà essere contestata, ex articolo 40 del codice penale, una «culpa in eligendo», come ricordato dalla costante giurisprudenza dello stesso giudice di legittimità (per tutte si vedano la sentenza 1° marzo 2012, n. 8018 e, da ultimo, la 25 marzo 2019, n. 12876).
© Riproduzione riservata

Fonte:
logoitalia oggi7