Gli investitori europei preferiscono restare liquidi. Questo crea qualche grattacapo a chi opera nel mondo del wealth management. Il tema non riguarda solo l’Italia. In Germania a fine 2019 si è toccato un record di denaro cash detenuto da privati nelle banche locali, un tipico segnale di mancanza di occasioni interessanti di investimento o di generalizzata preoccupazione. Lo stesso vale per l’Italia, dove l’ammontare di cash resta spropositato, nonostante il fatto che i c/c non rendono nulla. Per non parlare dei titoli di Stato, dove i bond che offrono rendimenti negativi si attestano a livello globale a 14 mila miliardi di dollari. Dietro questi dati si nasconde una mancanza di fiducia che comporta una resistenza a investire sui mercati. E questo è avvenuto nonostante i risultati da record messi a segno dalle borse nell’ultimo anno. Nemmeno l’introduzione delle direttive europee, come la Mifid II, volte ad aumentare la trasparenza sui costi e l’adeguatezza delle proposte di investimento fatte alla clientela hanno permesso di dare nuovo slancio al settore. E mentre le autorità europee sono alle prese con una revisione della direttiva proprio per tener conto dei problemi emersi in questi primi due anni di applicazione, resta aperta una domanda chiave: come si possono convincere i risparmiatori a tornare a investire?

Le strategie messe in campo dai wealth manager sembrano avere finora scelto due strade. Da una parte hanno preso sempre più piede i prodotti assicurativi. Come emerge anche dai dati Assoreti sul 2019. «Nell’ambito del risparmio gestito, il 58,6% degli investimenti netti coinvolge il comparto assicurativo, con volumi di raccolta pari a 11,9 miliardi di euro (+40,5% rispetto al 2018). I premi netti versati sulle polizze vita tradizionali raggiungono livelli quasi raddoppiati rispetto al 2018 (+85%) e pari a 4,9 miliardi di euro, mentre gli investimenti netti sui prodotti assicurativi a contenuto finanziario risultano pari a 6,9 miliardi di euro (+19,9%), con 3,4 miliardi posizionati sulle unit linked (+30,9%) e 3,5 miliardi sulle polizze multi-ramo (10,8%)», si legge nell’analisi Assoreti sul 2019.

Dall’altra hanno cercato di aprirsi a nuove tipologie di investimenti, come quelli legati ai private market. E anche in questo senso dai dati Assoreti emerge il ruolo che hanno avuto i consulenti. Nell’osservatorio si sottolinea infatti come « sia stato fondamentale l’apporto delle reti alla raccolta dei fondi chiusi mobiliari che investono sui mercati privati: la raccolta realizzata rappresenta il 47,5% delle sottoscrizioni nette totali sui fondi private market, ossia 1,5 miliardi di euro». Numeri interessanti, ma che riguardano una nicchia di risparmiatori.

Dal punto di vista, invece, delle commissioni applicate la direttiva Mifid II, partita nel 2018 ma in vigore dal 2019 per i rendiconti, non sembra aver avuto quell’effetto dirompente che si temeva. D’altronde da una ricerca condotta da School of Management del Politecnico di Milano per Moneyfarm, che ha analizzato la qualità delle informative ex post a consuntivo dell’anno 2018, inviate dai principali intermediari finanziari (18 tra i principali) a milioni di investitori retail italiani, ossia i rendiconti annuali voluti dalla Mifid II su costi e oneri sostenuti effettivamente sui loro investimenti, emergeva che le informazioni in molti casi non erano né schematiche né di facile lettura.

Un’indicazione simile arriva da un report di Ubs sul mondo del wealth management, con un focus sulle reti quotate. Secondo Ubs l’industria italiana del risparmio gestito dovrà fare i conti anche quest’anno con flussi deboli, mentre a un anno dall’introduzione della Mifid II, che ha fatto più luce sulle commissioni pagate dai sottoscrittori, i costi restano alti anche perché in pochi hanno effettivamente letto i nuovi rendiconti sulle fee.

Dall’indagine condotta da Ubs su oltre 1.000 clienti italiani emerge che è improbabile che i flussi di raccolta accelerino. «Abbiamo recentemente riportato la nostra visione prudente sulla raccolta in Italia a causa di una quota già alta dell’allocazione delle famiglie ai fondi comuni di investimento, per le prospettive deboli del pil e perché le uscite dai di titoli di debito non saranno massicce», afferma Ubs, senza dimenticare l’enorme massa di liquidità parcheggiata sui conti correnti e di deposito, in totale circa 1.500 miliardi di euro. «L’ultimo sondaggio di Ubs Evidence Lab rafforza la nostra attesa prudente perché suggerisce che la propensione per i prodotti d’investimento rimane bassa in Italia», proseguono gli analisti della banca svizzera. Infatti dal panel risulta che il 74% degli intervistati non prevede di aumentare la propria quota in prodotti di investimento nei prossimi 12 mesi. Questo ha risvolti sul fronte dell’andamento di borse dei titoli del risparmio gestito quotati. «Continuiamo quindi a considerare rischioso detenere titoli del settore alle valutazioni attuali», è la conclusione di Ubsm che pertanto nel comparto assegna come l’unico buy a FinecoBank, con un prezzo obiettivo di 13,1 euro; giudizi neutral, invece, per Anima e Banca Mediolanum (con prezzo obiettivo di 4,85 e 7,9 euro). Sell per Azimut e Banca Generali: il target che per il gruppo presieduto da Pietro Giuliani è di 13,1 euro e per quello guidato da Gian Maria Mossa è di 28,3 euro.

 

Più in generale Ubs osserva che la consapevolezza sulle commissioni di chi è già investito rimane limitata, nonostante la pubblicazione dei rapporti Mifid II, inviati agli investitori a metà dello scorso anno, per la prima volta, con i bilanci dei portafogli nel 2018. «Spesso ci è stato chiesto se i nuovi rendiconti Mifid II, che mirano ad aumentare la trasparenza dei costi sui prodotti d’investimento e che sono stati consegnati ai clienti nel 2019, potessero aumentare la sensibilità alle commissioni da parte dei clienti e spingere i margini di commissioni verso il basso», afferma Ubs. Ma questo obiettivo per ora sembra lontano dal realizzarsi, perché il 75% degli intervistati dall’indagine di Ubs Evidence Lab ha detto di non aver letto queste relazioni l’anno scorso. «Quindi la mancanza della sensibilizzazione dei clienti verso i prezzi rimane elevata in Italia, poiché abbiamo scoperto che il 74% degli intervistati non è consapevole, non può quantificare e sottovaluta i costi effettivi dei prodotti finanziari».

Ubs ha messo sotto la lente i costi dei fondi degli asset manager quotati, basandosi su quanto riportato in termini di «Spese correnti», l’indicatore che sintetizza le commissioni totali (escluse le commissioni di performance) dai dati Morningstar, che si basano sui Kiid degli intermediari. Il quadro riguarda solo una parte degli asset di queste reti perché cattura circa il 75% dei fondi venduti da Azimut in Italia, il 50% di quelli di Banca Generali, l’80% di Banca Mediolanum e il 30% di quelli di Finecobank. Nel caso poi di Azimut gli analisti di Ubs hanno aggiunto al dato di Morningstar l’aumento di 50 punti base alle fee ricorrenti che è avvenuto da febbraio 2019, ma non risultava ancora compreso nel dato Morningstar. Da questa fotografia emerge come, in media, le commissioni siano ancora elevate in Italia sia per i fondi obbligazionari, sia per quelli azionari, sia per i bilanciati.

Su questo fronte la banca d’affari elvetica ha calcolato, sulla base di dati Morningstar, che i fondi di Azimut hanno i costi più alti in base al Ter (Total expence ratio), l’indicatore che sintetizza le commissioni totali (escluse quelle di performance), mentre la loro performance media si colloca nel terzo-quarto quartile, quindi nella metà bassa della relativa categoria Morningstar.

In questo contesto di bassa sensibilità ai costi, gli operatori di settore sperano di fare investire alle famiglie italiane nei fondi quei 1.500 miliardi di euro che tengono depositati in conti correnti o in conti di deposito. «Crediamo che per vedere un cambiamento significativo nel modo in cui gli italiani allocano la propria ricchezza sarebbe necessario prima avere una rotazione strutturale dai depositi bancari in fondi comuni di investimento in Italia», premette Ubs. Ma questo per ora non è all’orizzonte, nonostante i tassi negativi o ai minimi sui conti. «È interessante notare che l’indagine Ubs Evidence Lab indica che solo il 26% degli intervistati utilizzerebbe i propri depositi per finanziare acquisti di fondi in uno scenario in cui siano addebitati tassi negativi sui depositi. Infine riteniamo improbabile», conclude Ubs, «che i nuovi fondi Pir influenzino in modo significativo la raccolta nel 2020». (riproduzione riservata)

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