Natalità in declino e pil a crescita zero. La bomba demografica mette a dura prova l’economia e i conti pubblici italiani. Grazie all’affermarsi di questa tendenza, però, alcuni settori hanno tanto da guadagnare. Ecco quali

di Francesco Bertolino
La grigia recessione non è inevitabile. L’invecchiamento della popolazione è una sfida per tutte le economie sviluppate e per l’Italia in particolare. Per la prima volta nella storia del Paese gli ultrasessantenni hanno superato i giovani under-30. Stando agli ultimi dati Istat, poi, il ricambio naturale è sceso al livello più basso dal 1918, ossia dalla fine della Prima Guerra Mondiale: per ogni 100 residenti che muoiono ne nascono 67. La popolazione italiana è ormai in calo da cinque anni e il costante declino della natalità non lascia presagire un’inversione di tendenza, almeno nel breve termine. Alla recessione demografica si accompagna un’ormai ventennale stagnazione economica che minaccia di trasformarsi in recessione. Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso il pil italiano è sceso dello 0,3% e per il 2020 l’Ue prevede per il Paese una crescita dello 0,3%. Il crollo della produzione industriale nel 2019 (-1,3%, peggior dato dal 2013) ha dato un ulteriore segnale della bomba demografica esplosa su crescita e conti di pubblici italiani. La gran parte degli economisti concorda sul legame esistente fra declino demografico ed economico: il G20 di Osaka ha definito l’invecchiamento un «rischio globale». Stando a una ricerca del think-tank belga Bertelsmann Stiftung, entro il 2050 il calo demografico potrebbe abbattere il pil pro-capite di Italia, Francia, Spagna e Germania di una cifra compresa fra 4.759 e 6.548 euro. Per il Fondo Monetario Internazionale l’invecchiamento della popolazione rischia di ridurre la forza-lavoro e la produttività, nonché la propensione a investimento e imprenditorialità. Il calo degli impiegati e l’aumento dei pensionati potrebbero poi compromettere la tenuta dei conti pubblici, specie degli Stati più indebitati. La Commissione Ue prevede infatti che entro il 2040 la spesa per sanità e pensioni dei Paesi membri salirà di oltre 400 miliardi passando dal 25 al 27,3% del pil.
Stante l’apparente ineluttabilità della transizione grigia – che non riguarda più solo le economie avanzate, ma anche Cina, Brasile e Turchia – la silver economy deve considerarsi un nuovo paradigma economico che offre occasioni di crescita alle imprese che meglio sapranno adattarvisi. Sempre la Commissione Ue ha calcolato che il giro d’affari dell’economia della terza età raggiungerà i 6.400 miliardi di euro nel 2025 e sarà responsabile del 40% dei nuovi posti di lavoro creati. Quanto all’Italia, la spesa realizzata dagli over-65 vale oggi 200 miliardi, quasi un quinto dei consumi totali dei residenti. La silver economy rappresenta perciò «una fonte importante di domanda potenziale e quindi un’opportunità per il sistema economico», nota il Centro Studi Confindustria (Csc). Alcuni settori sono candidati naturali ad approfittare della rivoluzione demografica, altri dovranno cambiare i modelli di business, altri ancora potranno prosperare aiutando le aziende in questa trasformazione. Fra i primi figurano servizi sanitari, industrie farmaceutiche, residenze per anziani, domotica, turismo. In generale, sottolinea del resto il Csc, «gli over 65 si caratterizzano per un consumo pro-capite annuo più elevato – 15.700 euro contro i 12.500 degli under 35 -, per una maggior ricchezza reale pro-capite (232 mila euro contro 110 mila), una solidità finanziaria superiore (con un anziano su 10 indebitato a fronte di quasi uno su tra fra gli under-40), un’incidenza della povertà inferiore della metà rispetto agli under-35 (13% contro 30%) e una resilienza al ciclo economico in quanto il reddito medio annuo degli over-65 è l’unico ad avere superato i livelli pre-crisi».
Fra i settori che dovranno invece adattare i modelli di business per sfruttare le occasioni d’argento figurano invece servizi finanziari e manifattura. Secondo numerosi studi, l’invecchiamento comporta una maggior propensione al risparmio e una minor propensione all’investimento. Per il comparto bancario ciò significa che diminuiranno le richieste di prestiti per iniziative imprenditoriali, mentre aumenterà la richiesta di servizi di asset management (e assicurativi). Nella composizione dei ricavi perciò le commissioni potrebbero assumere sempre maggior peso rispetto ai margini di intermediazione (già prostrati da anni di tassi zero). Nel 2019, per esempio, gestioni e assicurazioni hanno rappresentato quasi metà del risultato lordo di Intesa Sanpaolo, mentre per Ubi la forte crescita delle commissioni ha più che compensato la flessione del margine di intermediazione. Quanto alla manifattura, l’invecchiamento dei dipendenti e la riduzione delle persone in età da lavoro potrebbe causare un ulteriore calo della produttività italiana, già fra le più basse d’Europa. Per evitarlo le aziende dovranno investire su nuovi macchinari in grado sia di sostituire i lavoratori sia di aiutarli a svolgere mansioni ripetitive o faticose, ingrossando ancora i fatturati di società tecnologiche e fornitori di macchinari innovativi. D’altra parte l’evoluzione tecnologica richiederà un costante aggiornamento delle competenze dei dipendenti con un aumento della spesa in formazione a tutto vantaggio di chi offre servizi di riqualificazione. Infine, il calo della forza lavoro disponibile potrà essere – in parte, se non del tutto – compensato dall’inclusione di risorse ancora sottoutilizzate, come immigrati e soprattutto donne, la cui partecipazione al mercato del lavoro in Italia resta al 40%. A beneficio dei servizi di assistenza, secondo welfare e forse anche della natalità. (riproduzione riservata)7
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