di Paola Valentini

Mentre il governo è al lavoro per trovare una soluzione alla flessibilità in uscita dopo il 2021, quando scadrà il meccanismo di Quota 100, le adesioni alla previdenza complementare crescono, anche se a un ritmo troppo lento rispetto alle necessità di integrazione. La pensione pubblica è penalizzata dall’andamento debole del mercato del lavoro, essendo legata al metodo di calcolo contributivo, oltre che dalla dinamica asfittica dell’economia perché i contributi versati sono rivalutati annualmente in base al pil dell’Italia. Un Paese che cresce poco produce anche assegni bassi. Dai dati Covip emerge che a fine 2019 le posizioni nelle forme pensionistiche complementari si attestavano a 9,133 milioni; la crescita nell’anno è stata di 393 mila unità, +4,5%. Gli iscritti sono stimati in 8,31 milioni, afferma la commissione di vigilanza sui fondi pensione presieduta da Mario Padula. I lavoratori italiani sono circa 23,5 milioni, quindi restano scoperti circa 15 milioni di lavoratori. I fondi negoziali registrano 159 mila posizioni in più (+5,3%), portando il totale a fine dicembre a 3,161 milioni. Gran parte della crescita è però appannaggio dei dieci fondi per i quali l’iscrizione avviene in automatico. Nelle forme pensionistiche di mercato i fondi aperti contano 1,551 milioni di posizioni, 89 mila in più (+6,1%) rispetto alla fine del 2018. Nelle polizze individuali di previdenza (pip nuovi) il totale delle posizioni è di 3,419 milioni (più 144 mila unità, +4,4%), in rallentamento rispetto agli anni precedenti, rileva Covip. Nei fondi preesistenti le posizioni all’ultima rilevazione disponibile, che risale alla fine di settembre, erano 652 mila. Le risorse destinate alle prestazioni ammontano, alla fine di dicembre, a 184,2 miliardi, +10,2% sia per effetto delle iscrizioni sia per l’andamento positivo dei mercati finanziari nel 2019 (il dato non tiene conto delle variazioni nel 2019 dei pip vecchi). Il patrimonio dei fondi negoziali, 56,1 miliardi, fa +11,4% rispetto a fine 2018. Le risorse accumulate nei fondi aperti corrispondono a 22,8 miliardi, i pip nuovi totalizzano 35,6 miliardi; l’incremento nell’anno è stato del 16,4 e del 15,8%. Invece a fine settembre, le risorse di pertinenza dei fondi preesistenti erano pari a 63 miliardi. Sul fronte dei rendimenti i risultati medi di periodo del 2019 sono stati positivi e hanno superato la rivalutazione del tfr che resta in azienda, fermo all’1,5% (il tfr si apprezza dell’1,5% fisso all’anno più il 75% dell’indice di inflazione Istat). Al netto dei costi di gestione e della fiscalità i fondi negoziali nel 2019 hanno guadagnato il 7,2% contro l’8,3% e il 12,2% dei fondi aperti e i pip di ramo III. Nel periodo da inizio 2010 a fine dicembre 2019 (dieci anni) il rendimento medio annuo composto è risultato del 3,6% per i fondi negoziali, al 3,8% per i fondi aperti e al 3,8% per i pip di ramo III; al 2,6% per le gestioni separate di ramo I. La rivalutazione media annua composta del tfr è stata pari al 2%. (riproduzione riservata)

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