Versare i contributi per gli anni dell’università è utile soprattutto agli under 45. Ma solo chi ha iniziato a lavorare presto potrà lasciare in anticipo. Per gli altri è meglio ricorrere al fondo
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Tentazione riscatto. Ma a chi conviene davvero? La proposta sul conteggio ai fini previdenziali dei corsi universitari è contenuta nel decreto sulle pensioni, lo stesso che contiene quota 100, approvato a fine gennaio dal governo e ora in discussione in Parlamento. La misura prevede un riscatto agevolato per chi ha meno di 45 anni e lavora dal 1996, anno di entrata in vigore del metodo contributivo di calcolo delle pensioni ed è iscritto all’Inps.

Il periodo riscattabile riguarda la durata legale del corso di laurea (sono quindi esclusi gli anni di fuori corso). Il costo ammonta a un fisso di poco più di 5 mila euro per ogni anno riscattato, rateizzabili in 60 mesi, anche se ora il governo è intenzionato a presentare una proposta per estendere il piano di rateizzazione a 120 mesi. Il conto finale è comunque uguale per tutti, mentre nel riscatto ordinario, è legato allo stipendio (articolo qui sotto) e può essere molto più caro. Per ora la versione light è prevista soltanto per gli under 45, ma anche su questo aspetto potrebbe intervenire con un emendamento il governo estendendola a tutti, pur temperandone l’effetto con costi più gravosi con l’aumento dell’età anagrafica. La misura infatti, nelle intenzioni del governo, punta ad andare incontro alle generazioni più giovani (accanto a quella di quota 100 che invece favorisce chi è vicino alla pensione).

Condizioni di lavoro precarie e crescita economica anemica pesano come un macigno sulle pensioni pubbliche delle nuove generazioni, che avranno l’assegno calcolato tutto con il sistema contributivo. Quindi chi più versa, più avrà. E il montante accumulato viene rivalutato in base all’andamento del pil dell’Italia. Di conseguenza un andamento piatto come quello degli ultimi anni si ripercuote sull’importo finale. Di qui l’importanza di rimpinguare l’assegno pubblico. E un meccanismo come quello del riscatto di laurea può servire proprio a questo scopo, oltre alla possibilità di ridurre la distanza dalla pensione. Sull’altro piatto della bilancia ci sono i fondi pensione, che hanno lo stesso obiettivo di rimpinguare la rendita ma non hanno alcun ruolo nell’aumentare il bagaglio di anni di contributi. E dal momento che le risorse a disposizione sono limitate, MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza indipendente Progetica un confronto tra le due opzioni: ovvero conviene il riscatto o il fondo pensione?
I profili simulati sono due ed entrambi si riferiscono a dipendenti che vogliono riscattare quattro anni di laurea: un 35enne con uno stipendio di 2 mila euro netti al mese e un 45enne con un reddito di 2.500 euro netti. Per ognuno di questi due lavoratori si è poi ipotizzato un inizio dell’attività lavorativa a 26 oppure 30 anni. «Si è scelta l’età di 26 anni perché così il 45enne continua a rimanere nel sistema contributivo anche con il riscatto quadriennale», spiega Andrea Carbone di Progetica.

Per tutti è stato analizzato cosa accade riscattando la laurea, con il metodo tradizionale o quello agevolato, oppure mettendo la stessa cifra in un fondo pensione. Ovviamente il riscatto agevolato batte quello tradizionale: costa meno e consente di andare in pensione con lo stesso numero di anni di anticipo; all’aumentare del reddito aumenta anche il risparmio sul costo.
Le tabelle, in ordine di colonna, mostrano: il versamento mensile al netto del beneficio fiscale in funzione del reddito, l’età alla pensione con il riscatto e con il fondo, le pensioni pubbliche e complementari nette, l’incremento complessivo in termini di ricchezza a vita media, l’indice di efficienza (ovvero il rendimento a vita media di ogni euro investito). Le principali riflessioni che emergono dall’osservazione dei dati valgono per tutti i profili.
«Il confronto tra riscatto e fondo pensione pende naturalmente a favore del riscatto di laurea quando l’obiettivo è quello di anticipare: il tempo della propria vita vale probabilmente di più degli indicatori economici, quindi ricchezza ed efficienza», spiega Carbone, «chi può anticipare è solitamente chi si laurea in corso e trova rapidamente lavoro; nelle nostre simulazioni è la condizione di chi ha iniziato a lavorare a 26 anni». Tuttavia, chi in conseguenza del riscatto anticipa per un numero di anni inferiori agli anni riscattati, «può porsi la domanda se sia da preferire il tempo di vita, ottenibile con il riscatto, o l’efficienza economica del fondo pensione», aggiunge Carbone. Nelle tabelle si nota come a fronte di un riscatto di quattro anni, l’anticipo sia di poco meno di tre anni per chi ha iniziato a 26 anni; al diminuire dell’anticipo, diminuisce anche l’efficienza dell’operazione.

«Se si guarda agli indicatori economici, è evidente che un fondo pensione, che investe nei mercati e non nel pil, ha dei rendimenti e delle efficienze maggiori, nonostante i costi», dice ancora Carbone. Peraltro la tassazione finale di un fondo pensione è più favorevole (dal 15% al 9%) rispetto a quella della pensione Inps (aliquota Irpef). «Per chi ha iniziato a lavorare a 30 anni l’anticipo tramite il riscatto è invece nullo; in questi casi l’effetto economico è limitato: tanto si versa, tanto si avrà a vita media; i fondi pensione in questo caso appaiono sicuramente più efficienti», prosegue Carbone. Una considerazione finale, che vale per tutte le simulazioni, è l’effetto del fisco. «I profili simulati hanno diversi redditi, quindi un diverso contributo del fisco all’efficienza dell’operazione riscatto o fondo pensione. In linea generale, più sale il reddito, maggiore è l’effetto positivo della deduzione fiscale», conclude Carbone.
Intanto i numeri della previdenza complementare in Italia sono in crescita, fa sapere la Covip. A fine 2018 il numero di posizioni in essere tra le forme pensionistiche complementari è di 8,747 milioni, quindi la crescita dall’inizio dell’anno è stata di 448 mila unità. In particolare hanno registrato un’espansione pronunciata i fondi negoziali che hanno registrato una crescita delle adesioni del 7%, portando il totale a fine anno a 3 milioni di iscritti. L’apporto maggiore alla crescita delle posizioni si è registrato nei fondi pensione che hanno attivi meccanismi di adesione contrattuale. Dal punto di vista dei rendimenti Covip sottolinea come «l’andamento dei mercati finanziari nel corso del 2018 non sia stato nel complesso positivo. I rendimenti delle obbligazioni governative sono risaliti in misura significativa negli Stati Uniti; si sono mantenuti in media stabili nell’area dell’euro fatta eccezione per i titoli italiani i cui premi per il rischio sovrano si sono allargati a partire dalla seconda metà dell’anno. Per i listini azionari, l’andamento è risultato contrastato nella prima parte del 2018 per poi peggiorare in modo consistente e generalizzato nell’ultimo trimestre dell’anno».

Covip fa notare che le tendenze osservate si sono riflesse sui risultati delle forme pensionistiche complementari, subendo perdite in conto capitale causate dai ribassi dei corsi azionari e dal rialzo dei rendimenti obbligazionari. «I rendimenti aggregati, al netto dei costi di gestione e della fiscalità» conclude la Covip, «sono stati in media negativi». I fondi negoziali hanno perso il 2,5% in media, mentre il bilancio è stato più penalizzante per fondi aperti (-4,5%) e pip unit linked (ramo III, -6,5%). Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato e i cui rendimenti dipendono in larga parte dal flusso cedolare incassato sui titoli detenuti, il risultato stimato è stato positivo (1,7%). Covip, però, ricorda che più limitato è l’effetto degli andamenti recenti sul rendimento medio annuo composto, valutato su orizzonti più propri del risparmio previdenziale. Nel periodo da inizio 2009 a fine dicembre 2018 (dieci anni) i rendimenti sono risultati pari al 3,7% per i fondi negoziali, al 4,1% per i fondi aperti e al 4% per i pip di ramo III; al 2,7% per le gestioni separate di ramo I. Nello stesso periodo, la rivalutazione media annua composta del tfr è stata pari al 2%». (riproduzione riservata)

Fonte: