Sono in arrivo i primi rendiconti dettagliati su costi e rendimenti, come indicato dalla direttiva Mifid II. Ecco una guida per interpretare i numeri. E quali sono le domande cruciali da fare a chi si prende cura dei vostri soldi
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Tra poche settimane gli investitori inizieranno a ricevere il nuovo rendiconto più dettagliato, introdotto dalla direttiva Mifid 2. E si troveranno per la prima volta maggiori informazioni sia sui costi totali sostenuti per il proprio investimento sia quanto questi hanno impattato sul rendimento. Nel facsimile riportato in queste pagine, elaborato da Pwc, MF-Milano Finanza mostra un esempio del documento, che banche, sim e società di gestione, stanno mettendo a punto, in modo che gli investitori siano consapevoli di tutte le informazioni che avranno a disposizione. «Sia per motivi tecnici, sia di mercato, la predisposizione del prospetto è ancora in corso di realizzazione presso gli intermediari», conferma Mauro Panebianco, partner Asset & Wealth Management di Pwc. Infatti il suo debutto coincide con un momento molto delicato. Lo scorso anno i rendimenti di quasi tutte le asset class sono stati negativi e di conseguenza i risultati non saranno particolarmente brillanti per cui gli operatori stanno valutando con molta attenzione l’elaborazione di questi rendiconti di fine anno», aggiunge Panebianco. Alcuni addirittura potrebbero far slittare alla primavera l’invio dell’estratto conto sul 2018, anche perché la normativa lascia un certo margine di flessibilità e gli intermediari hanno ancora diversi dubbi su come interpretarla. «L’investitore potrebbe trovarsi anche di fronte a un rendimento lordo positivo, ma negativo al netto di costi e imposte», aggiunge Panebianco. Non solo. Il costo del servizio di investimento presentato nel rendiconto comprende le commissioni dei singoli strumenti finanziari sottostanti. Ma in molti casi il cliente che vuole conoscere anche questi dati deve farsi preparare un’analisi a parte. «Siamo in fase di work in progress e presumibilmente a fine febbraio inizieranno a essere inviati i primi documenti», aggiunge Panebianco. Il problema è che la norma elenca le voci che devono essere rappresentate nel rendiconto, ma non definisce uno schema rigido per cui potranno esserci difformità tra operatori. «Certamente il 2019 sarà un anno di transizione e poi si cercherà di adottare il modello più di rappresentazione dei costi e dei rendimenti più efficiente. Quindi per andare a regime bisognerà attendere almeno il primo semestre 2020», rileva Panebianco.

Ma in sostanza il rendiconto predisposto da Pwc e pubblicato in pagina è una buona indicazione di quello che i risparmiatori si vedranno recapitare. «Contiene le informazioni obbligatorie e a partire da queste il cliente può chiedere un maggior dettaglio», conferma Panebianco. E qui entrano in gioco le competenze finanziare dell’investitore. «Con l’incremento delle informazioni nel rendiconto occorre una maggiore cultura finanziaria, quindi anche qui mi aspetto un periodo transitorio dove come primo passo il compito dell’investitore sarà quello innanzitutto di comprendere le informazioni», avverte Panebianco. Diventa di rilevante anche il ruolo del consulente che dovrebbe aiutare i clienti nell’interpretare nel migliore di modi i nuovi dati. Il tutto in un contesto che vede l’Italia ancora ancorata a modelli di remunerazione calcolati soprattutto in base agli asset gestiti. Non è un caso che Maurizio Bufi, presidente di Anasf (l’associazione nazionale dei consulenti finanziari), nel corso dell’evento Consulentia 2019, ha dichiarato: «L’industria del risparmio gestito è chiamata ad una prova di maturità: se saprà rinnovarsi riducendo i costi potrà reggere il cambiamento del mercato, se al contrario non riuscisse a cogliere le nuove esigenze del mercato potrebbe avviarsi verso il declino dopo anni di forte crescita». D’altronde il contesto in cui si opera continua ad essere difficile. «A partire dal 2008, i rendimenti lordi degli investimenti si sono mediamente attestati su livelli al di sopra della media storica, favoriti dall’apprezzamento dei titoli obbligazionari in conseguenza della storica discesa dei tassi di interesse e da una fase di crescita dell’azionario lunga e con volatilità contenuta. La realtà si manifesta spesso in modo inatteso, infatti dopo questa fase di crescita dei mercati, il 2018 è stato l’anno peggiore dal secolo scorso con oltre il 90% delle asset class, che hanno registrato performance negative», osserva Bufi.
Da questo punto di vista, «il rinvio dell’entrata in vigore delle nuove regole introdotte dal recepimento della Mifid 2 non si è rivelata particolarmente fortunata, in quanto ha comportato che gli obblighi di trasparenza coincidessero con le nuove rendicontazioni alla clientela al 31 dicembre scorso. Alcuni studi attendibili misurano la diminuzione della ricchezza degli italiani dalla fine di febbraio 2018 intorno al 10% del pil nazionale», dice ancora Bufi.
Negli anni passati le buone performance hanno consentito a tutti gli attori del risparmio gestito di ottenere ritorni positivi e interessanti, dai gestori agli intermediari e dai consulenti alla clientela. «Difficilmente per gli anni a venire i rendimenti lordi potranno avvicinarsi mediamente a quelli precedenti, per la pressione sui tassi obbligazionari e per la probabile fase di fine ciclo dei mercati azionari. Quindi è logico aspettarsi una forte ridefinizione dei rapporti tra clienti e fornitori dei servizi di consulenza e di asset management», prosegue Bufi, «le nuove e più analitiche informazioni ricevute dal cliente sui costi dei servizi di cui usufruisce, potranno consentire una più attenta e consapevole valutazione della congruenza tra la qualità della prestazione ricevuta e il relativo costo, e ciò offre oggettivamente un supporto normativo a questa ridefinizione dei rapporti».
Il problema è che si teme un effetto boomerang, con i clienti che potrebbero pensare che i costi rappresentati dell’estratto conto vadano tutti al consulente. Invece non è così. «Alcune indagini a campione, per quanto non esaustive, assegnano alle produzione delle fabbriche prodotto tra il 30 e il 40% dei costi sostenuti dai clienti ed alla distribuzione una quota dal 60 al 70%, di cui una consistente parte remunera la società di intermediazione ed una parte restante è riconosciuta al consulente, spesso meno di un terzo», rileva Bufi. E visto che consulenti finanziari rappresentano l’anello di collegamento tra l’industria del risparmio e il risparmiatore, rischiano di pagare il costo maggiore e non dovuto per la nuova trasparenza dei costi perché si trovano in trincea: «Il cliente potrebbe facilmente credere che è il consulente, con cui ha il contatto personale, ad essere il più importante beneficiario dei costi a lui addebitati», afferma Bufi. Ma la realtà è ben diversa.

«A oggi soprattutto in alcune società, i consulenti hanno visto ridursi la remunerazione, nonostante non ci sia stata ancora una riduzione dei costi per la clientela. La linea di tendenza maggioritaria sembrerebbe essere che l’asset management è sottoposto a un significativo taglio dei ricavi, ma per la maggioranza delle società di intermediazione non sembra cambiare quasi nulla nei ricavi da commissioni», aggiunge Bufi, «se questa tendenza fosse confermata, il settore rischierebbe una parabola discendente, perché scontenterebbe sia i clienti per i costi elevati, che i consulenti, che, a fronte di responsabilità crescenti nella relazione con i clienti stessi, si vedrebbero erosi i compensi. La responsabilità e la consapevolezza di un investimento può passare anche per la totale trasparenza delle commissioni chieste ai clienti e alla ripartizione di esse tra gli attori della catena del valore e ciò sarebbe una prova di coerenza».
Il tutto mentre il settore dell’asset management, a partire dall’affermarsi della gestione passiva nel mercato americano e in quello dei paesi più evoluti, è già in piena ristrutturazione. «Molte società abbattono drasticamente i costi degli strumenti finanziari gestiti, altre si preparano a lanciare strumenti la cui commissione di gestione è quasi interamente collegata al risultato. Le società di intermediazione, strette tra esigenze di bilancio e obbligo di trasparenza, hanno difficoltà a prendere atto della necessità di abbattere i costi; solo qualcuna ha avviato un processo più virtuoso. Non si discute, ovviamente, la ricerca del profitto, funzionale alla necessità di investire nella rete, tuttavia, negli ultimi anni il dato più discutibile è l’alto livello di pay-out che va a remunerare non solo la società, ma a supportare con un contributo imponente l’utile dell’azionista di riferimento», osserva Bufi.

Proprio a proposito di modelli di remunerazione, secondo gli analisti di Mediobanca Securities l’industria del risparmio gestito deve cambiare linea perché la strategia della commissione unica che si adatta a tutti i tipi di clienti ha i tempi contati. Infatti gli analisti ricordano che i gestori ancora calcolano le fee come una percentuale degli asset gestiti, con una limitata proporzione inversa in base a quanto investe il cliente, e ancora orientano il modello di servizio in base alla tipologia degli asset. «Crediamo che la segmentazione della clientela in base al livello di ricchezza (mercato di massa, affluent e private) non funzioni più nel contesto attuale, mentre sarebbe necessaria una segmentazione in base ai bisogni del cliente in termini di frequenza delle interazioni e grado di personalizzazione», si legge nel report dedicato al settore. In particolare Mediobanca Securities si sofferma sul modello statunitense di Charles Schwab. Questa società di intermediazione offre tre servizi di advisory (investimento automatizzato, una convergenza tra investimento automatizzato e una pianificazione personalizzata e una consulenza finanziaria completa) e sei prodotti di investment advisory. Questo consente ai clienti di scegliere il livello più appropriato di servizio di cui hanno bisogno e di pagare per quello, indipendentemente dall’ammontare degli attivi. Anche dal punto di vista del pricing il modello mostra costi più contenuti e va dalle zero commissioni per l’investimento automatico a un massimo dello 0,90% per le soluzioni equity offerte con Schwab private client.
In Italia la situazione è diversa e secondo Mediobanca «l’attuale schema di pricing non è efficiente per la clientela, ma conviene alle società». Gli analisti sottolineano che: «Le reti posso obiettare con il fatto che i promotori finanziari seguono i clienti attivamente con frequenti visite e chiamate e questo giustificherebbe le fee alte prelevate. Tuttavia dalla nostra analisi emerge che in media ci sono dieci interazioni l’anno tra cliente e promotore e, assumendo che i due terzi siano telefonate, si arriva a una media di tre incontri all’anno. Inoltre molti prodotti sono solitamente molto standardizzati». Certo, trattandosi di medie, è probabile che ci siano alcuni clienti seguiti in modo capillare ed altri che non necessitano di un servizio di questo tipo. Tuttavia pur con tutta la prudenza necessaria quando si interpretano statistiche secondo Mediobanca questi dati confermano la tesi che «ci sono clienti che dovrebbero pagare fee più basse perché hanno bisogno di un servizio più light, mentre in altri casi il pricing attuale è corretto vista la frequenza delle interazioni».
L’approccio Schwab non sarà facile da implementare in Italia perché andrebbe a impattare sugli utili degli asset gatherer. Quindi è difficile che siano le società a optare per questo modello di loro spontanea iniziativa. Ma per gli outsider il discorso può essere diverso e Mediobanca si chiede se Poste sarà il Charles Schwab italiano. Gli analisti infatti ricordano che ci sono due società che stanno differenziando il modello di servizio o potrebbero farlo. Il primo caso è quello di Banca Profilo , il cui modello tende a integrare soluzioni digitali innovative rivolte soprattutto ai clienti più giovani (ma non solo) dentro ai servizi del private banking di alta gamma. Il secondo caso è quello di Poste che secondo Mediobanca «sta ancora lavorando per trovare il suo posizionamento nel mondo del risparmio gestito. I numeri sono già notevoli con la società che gestisce 250 miliardi di asset di clienti che hanno asset finanziari superiori ai 75 mila euro e 30 miliardi di asset di clienti con asset finanziari superiori ai 500 mila euro». Quindi «la possibilità di distribuire prodotti con un pricing competitivo (senza fee di performance o remunerazione del consulente) e la possibilità di sviluppare un’infrastruttura tecnologica rendono Poste un credibile concorrente per gli asset gatherer italiani».
Mentre Bufi conclude: «Il consulente deve accettare le sfide che si pongono di fronte alla sua evoluzione professionale: aumentare le masse in gestione pro capite, attraverso un aumento della produttività, con le nuove tecnologie e con nuove competenze. Al consulente quindi il compito di interpretare con dedizione, passione, competenza e responsabilità il proprio ruolo. Per svolgerlo, tuttavia, deve anche essere adeguatamente remunerato: partecipare ai ricavi da commissioni per almeno un terzo del totale sembra il minimo riconoscimento del suo ruolo assolutamente fondamentale. Nel settore del risparmio gestito l’apporto del consulente è infatti fondamentale nella catena del valore e, come tale, va giustamente riconosciuto, anche sotto l’aspetto retributivo». (riproduzione riservata)
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