I commissari puntano a una soluzione di mercato per la cassa. Alla finestra c’è qualche fondo, a partire da Apollo, ma le banche restano fredde in assenza di una dote dallo Stato. E mercoledì 27 arriva il piano
di Luca Gualtieri

Banca Carige entra in una settimana decisiva. Mercoledì 27 i commissari Pietro Modiano, Fabio Innocenzi e Raffaele Lener presenteranno al mercato il nuovo piano industriale, che potrebbe fornire chiare indicazioni anche sul percorso di consolidamento e dunque sull’uscita dalla crisi attuale.
Quella di Carige è del resto una crisi lunghissima nel panorama dei dissesti bancari italiani. Sono passati sei anni dall’uscita di scena di Giovanni Berneschi, il controverso padre-padrone che Banca d’Italia costrinse alle dimissioni nell’autunno 2013 dopo alcune dure ispezioni. Da allora la banca genovese ha spolpato gli azionisti con 2,21 miliardi di aumenti di capitale (800 milioni nel 2014, 850 milioni nel 2015 e 560 milioni nel 2017) a fronte di 3,18 miliardi di perdite, determinate in larghissima parte dai 3,15 miliardi di rettifiche su crediti. Anni di deleveraging hanno assottigliato in maniera consistente l’attivo che è passato dai 38 miliardi del 2011 ai 24 miliardi del settembre scorso. La ristrutturazione non poteva avvenire in un contesto macroeconomico peggiore: con i tassi in caduta verso lo zero, i ricavi hanno costantemente perso quota.

Carige è passata dai 490 milioni di interessi netti del 2011 ai 233 di fine 2017, mentre il margine di intermediazione si è contratto da 858 a 381 milioni. Se è vero che negli ultimi anni il perimetro del gruppo si è ristretto, la flessione è stata comunque molta significativa. Specie perché la banca ha nel frattempo rinunciato a importanti fonti di ricavo: dopo aver venduto le assicurazioni ad Apollo, si è recentemente disfatta anche di Creditis, la controllata attiva nel credito al consumo. Mosse obbligate che però hanno aumentato la dipendenza da margine di interesse. Il risultato è che il cost/income è balzato dal 58,5% del 2011 al 90,2% del settembre scorso. E questo malgrado i tagli effettuati dalle gestioni che si sono succedute: rispetto al 2011, circa un dipendente su tre è uscito dalla banca, mentre la rete commerciale si è contratta di quasi 200 filiali. La maggior parte degli sportelli rimasti insiste oggi sulla Liguria, una regione in cui dal 2007 al 2016 il pil è crollato del 12,5% con una performance peggiore a quella di Sud e Isole. Se questo è il declino industriale, per gli azionisti gli ultimi sei anni sono stati un bagno di sangue: un euro investito nel 2012 ha incassato una perdita superiore al 99%, anche se dall’inizio di gennaio le negoziazioni sono sospese in attesa di una soluzione alla crisi.

Sono questi i numeri che negli ultimi mesi gli advisor di Ubs devono aver snocciolato di fronte a banchieri e investitori alla ricerca di un cavaliere bianco. Dopo il clamoroso flop dell’assemblea di dicembre in cui la famiglia Malacalza ha fatto saltare il piano di salvataggio, l’aggregazione è ormai una strada obbligata per l’istituto genovese finito nel frattempo in amministrazione straordinaria. Già alla fine di gennaio la Bce aveva chiesto ai vertici di definire in tempi serrati l’individuazione di un partner finanziario. Il dossier è circolato sulle scrivanie delle principali banche italiane, anche se molti amministratori delegati si sono già smarcati. Intesa e Ubi hanno fatto capire con chiarezza di non essere interessate, mentre Bper e Unipol sono concentrate sull’integrazione di Unipol Banca. Resta Unicredit che però avrebbe posto condizioni molto stringenti al governo: il precedente a cui si guarda è quello di Intesa Sanpaolo che nel 2017 comprò gli asset di Veneto Banca e Popolare di Vicenza con una ricca dote statale che copriva la pulizia del bilancio e gli esodi del personale. In generale insomma il sistema bancario italiano si è finora mostrato molto freddo di fronte al dossier. E questo malgrado il tesoretto da circa 2 miliardi di euro tra crediti fiscali, rimozione di add-on e adozione di modelli interni. Nelle ultime settimane sono circolati anche i nomi di alcuni fondi di investimento come BlackRock e, soprattutto, Apollo che già nell’estate scorsa era tornato a studiare Carige nonostante la battaglia legale in corso. Finora però pochissime banche italiane sono state rilevate da fondi di investimento e le uniche eccezioni sono state piccoli o piccolissimi istituti da trasformare in realtà specializzate. In ambienti finanziari c’è pertanto un certo scetticismo sull’esito delle trattative, specie per la cospicua dotazione di liquidità necessaria per gestire un asset come Carige .

L’identità del cavaliere bianco non è l’unica incognita all’orizzonte. L’altra è rappresentata dalle scelte della famiglia Malacalza. In base agli accordi con la Vigilanza Bce, Carige ha bisogno di un aumento di capitale da 400 milioni: di questi, 320 milioni sono già garantiti di fatto dal settore bancario attraverso lo Schema Volontario del Fitd (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi). Quello che è però indispensabile è l’ok dell’assemblea all’operazione che dipende per l’appunto dal voto dei Malacalza. In una nota e in alcune indiscrezioni trapelate sui giornali, il gruppo Malacalza ha dato disponibilità ad approvare l’aumento di capitale, vincolando però il via libera a nuove informazioni sulla banca e al piano industriale.
Tra tante incognite, se i vertici sono determinati a trovare una soluzione di mercato, l’ipotesi di un intervento dello Stato è tutt’altro che improbabile. Il governo ha già delineato il piano B: si passerà alla ricapitalizzazione precauzionale sul modello Mps , sempre che le autorità europee riconoscano la rilevanza sistemica nazionale di Carige . Un presupposto tutt’altro che scontato visto che la cassa genovese ha un attivo di appena 23 miliardi contro i 153 miliardi che Siena aveva alla fine del 2016. In ogni caso si farà il possibile per evitare un bail-in che, nel caso di Carige , potrebbe rivelarsi particolarmente doloroso: a parte il prestito sottoscritto dal Fitd infatti la banca non ha bond subordinati in circolazione dopo l’operazione di liability management lanciata a fine 2017. Il costo del salvataggio si scaricherebbe insomma su obbligazioni senior (circa 3,3 miliardi) e depositi sopra i 100 mila euro. Venerdì 22 intanto la banca ha ricevuto le offerte di Sga e Credito Fondiario Fonspa per gli 1,7 miliardi di crediti deteriorati messi in vendita nell’ambito del piano. (riproduzione riservata)

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