Pagine a cura di Angelo Costa

Non tutti gli avvocati d’affari sembrano entusiasti per le novità in tema di whistleblowing. L’istituto di origine anglosassone, nato per tutelare i dipendenti pubblici che segnalano illeciti in funzione anticorruzione, è stato infatti esteso dal legislatore italiano anche al settore privato: la legge n. 179/2017, entrata in vigore il 29 dicembre scorso, ha infatti ampliato l’ambito di applicazione del whistleblowing da un lato rivisitando la disciplina pubblica già prevista dalla «legge Severino» (n. 190/2012), e dall’altro introducendo questa disciplina nell’ambito dei modelli di organizzazione e gestione previsti dall’articolo 6 del dlgs. n. 231/2001.

Anche se in maniera «pudica», in Italia vengono ammesse le segnalazioni anonime (che rimangono invece vietate in altri paesi dell’Unione europea), facilmente consentite dalle tecnologie fornite dai service provider attivi nel settore.

Favorevole all’estensione al privato dell’istituto è Anna Romano, name partner dello studio legale Satta Romano: «il whistleblowing è un istituto che può rivelarsi utilissimo.

Molto opportunamente la riforma mira a renderlo più efficiente, estendendone l’ambito di applicazione a soggetti, come società pubbliche e operatori privati, e a segmenti di attività, collaborazioni e forniture, che non rientravano nella precedente disciplina. In questo modo colma una lacuna esistente nel sistema per offrire una tutela piena e agevolare l’emersione dei fenomeni in qualsiasi punto della filiera essi si annidino o possano essere rilevati. Nel contempo, rafforza gli strumenti di intervento nella misura in cui risultino strettamente funzionali all’obiettivo del legislatore, in modo da evitare abusi e strumentalizzazioni delle segnalazioni».

«La normativa», osserva Daniela Jouvenal Long, partner di Nunziante Magrone, «ricalca in sostanza linee prevedibili e a cui noi», Nunziante Magrone ha un team multidisciplinare in materia di compliance, «già uniformavamo i programmi whistleblower disegnati per i nostri clienti, che infatti dovranno solo integrare da un punto di vista formale tali programmi nei loro modelli 231. Rimane la difficoltà principale, che è quella di garantire per le imprese multinazionali un programma uniforme nei diversi Stati (inclusi quelli Ue)».

Altro esempio diretto è fornito da Guido Molinari, partner di Quorum: «Nell’ottica di armonizzare le realtà aziendali delle società clienti alla luce della novella legislativa, lo studio sta già implementando sistemi di prevenzione conformi alla legge, con l’introduzione anche di sanzioni ad hoc nei confronti di quei soggetti che, con dolo o colpa grave, effettuino segnalazioni che si rivelino infondate».

«Nonostante le (solo apparenti) difficoltà applicative, l’importanza di dotarsi di strumenti di segnalazione è tanto più importante quanto più si pensi che, statistiche alla mano, sono oltre 2.410 i casi di frode in 114 paesi (ossia circa il 40% del totale) che vengono scoperti a seguito di segnalazioni (così, Association of Certified Fraud Examiners – Acfe 2016)», commenta Stefano Loconte, name partner di Loconte & Partners. «E non è un caso, infatti, che le norme sul whistleblowing si stiano velocemente moltiplicando, registrando una notevole estensione della disciplina in più campi d’azione».

Un intervento normativo positivo anche secondo Jean-Paule Castagno, counsel di Clifford Chance: «allinea il contenuto dispositivo alle best practice internazionali, anche se lascia scoperti alcuni punti essenziali quali: un sistema di organizzazione tra le diverse funzioni che ricevono le segnalazioni, un coordinamento tra segnalazioni svolte all’interno dell’azienda e quelle eventualmente svolte dal medesimo segnalante verso l’esterno oppure una sanzione per chi ostacola la trasmissione di una segnalazione all’interno dell’azienda. Ebbene, su tali aspetti, sempre utilizzando una analisi comparativa con le altre legislazioni, l’azienda potrebbe valutare interventi interni che diano così maggior concreta efficacia allo strumento del whistleblowing».

Secondo Luca Capone, responsabile del gruppo di professionisti dedicato al diritto del lavoro dello studio Freshfields Bruckhaus Deringer LLP la nuova normativa sul whistleblowing nel settore privato va vista con favore. «Credo che potrà costituire un utile complemento alla normativa 231 e alla sua effettività. Credo però che sarà importante bilanciare i diritti dei vari soggetti coinvolti, ivi inclusi i soggetti segnalati. Al fine di evitare danni, per loro natura difficilmente riparabili, all’immagine, alla reputazione ed alla professionalità di tali soggetti, sarà importante che le procedure aziendali che implementeranno il whistleblowing garantiscano una preliminare delibazione della fondatezza delle accuse, che garantisca la massima riservatezza, professionalità e oggettività dell’indagine interna».

Il problema dei dati personali

Laura Liberati, senior associate di Macchi di Cellere Gangemi, sposta la discussione sul fatto che «l’adozione dei sistemi di whistleblowing interni comporta, in primo luogo, un problema di tutela di dati personali: raccolta, registrazione, conservazione, comunicazione e distruzione di dati relativi alle persone denunciate e ai denuncianti. Rispetto a questi aspetti, nonostante il lungo processo di discussione e approvazione, la prima impressione è che la nuova normativa lasci ancora aperti molti dubbi interpretativi e dunque notevole incertezza laddove si intenda predisporre una procedura interna di denuncia le cui modalità risultino conformi alle disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali».

Secondo Gianluigi Marino, partner di Osborne Clarke, «da un punto di vista privacy, la normativa appena approvata lascia ancora delle aree grigie. Il garante per la protezione dei dati personali fin dal dicembre 2009 aveva segnalato al Parlamento l’opportunità di legiferare in materia di whistleblowing e, in particolare, di individuare i presupposti di liceità del trattamento in questione».

Alcune criticità

Anche secondo Francesco De Biasi, counsel di Cleary Gottlieb, la novella legislativa «non è priva di zone d’ombra. Per esempio, la disciplina dettata per il settore privato si limita a imporre che i canali di gestione della segnalazione “garantiscano la riservatezza dell’identità del segnalante”, senza definire la portata di tale riservatezza, neppure in relazione ai diritti che altre norme di legge possono riconoscere al segnalato. il legislatore della novella individua i legittimati attivi alla segnalazione nel settore privato solo nei soggetti di cui all’«articolo 5, comma 1, lettere a) e b)» del dlgs n. 231/2001 (vale a dire, in sostanza, tutto il personale aziendale), tacendosi di altre, pur opportune, categorie di soggetti, come i fornitori. Al riguardo, è ragionevole ritenere che la normativa introduca misure minime, essendo dunque possibile per le aziende estendere volontariamente l’accesso ai canali di segnalazione a una platea più ampia di destinatari».

La normativa, secondo Federica Paternò, partner di Toffoletto De Luca Tamajo, «resta carente nel modello delineato dalla norma, destando non poche perplessità, il profilo della protezione del datore di lavoro e più in generale dell’organizzazione a livello sia complessivo che di singolo individuo, dalle segnalazioni false, tendenziose o addirittura strumentali. È, infatti, contemplata la reazione disciplinare nei confronti del segnalante per la denuncia infondata solo nell’ipotesi in cui sia accertato il dolo o la colpa grave, troppo poco per fare da deterrente a mitomani, visionari e/o anche solo sempliciotti».

«Da segnalare, poi», secondo Raffaella Quintana, partner di Dla Piper, «un ulteriore profilo di incertezza relativo al regime applicabile alle società sottoposte a controllo pubblico, le quali sembrano essere destinatarie sia delle previsioni legislative sul whistleblowing nel settore pubblico che di quelle nel settore privato. La non perfetta identità di regolamentazione nei due settori non potrà che alimentare dubbi su quale sistema di whistleblowing, pubblico o privato, adottare in concreto».

Per Aurelio Giovannelli, partner di Baker McKenzie, «la mancata rilevanza giuridica delle denunce anonimamente pervenute all’ente, unitamente alle previsioni che espongono l’autore di segnalazioni infondate a sanzioni disciplinari non solo in caso di dolo (circostanza questa più che comprensibile) ma anche di colpa grave, rendono di fatto l’intero sistema meno apprezzabile di quanto si possa pensare da una prima lettura e da quanto espresso da alcuni commentatori, e sicuramente non al livello di adeguatezza ed efficacia di sistemi adottati in molte giurisdizioni, comprese quelle normalmente meno virtuose della nostra nell’adozione di strumenti per la lotta alla corruzione».

«Ci sono alcuni passaggi di non immediata lettura- aggiunge Mario Di Giulio, partner di Pavia e Ansaldo, quali, per esempio, il riferimento alla colpa grave del segnalante nell’effettuare una segnalazione. Infatti il concetto di graduazione della colpa (colpa grave versus colpa lieve), che assume di solito significato nella valutazione dell’inadempimento di particolari obbligazioni contrattuali, sembra invece avere meno senso nell’ipotesi in parola. L’introduzione di tale concetto può creare problemi applicativi ed interpretativi, non essendo individuabile a priori la condotta virtuosa che il segnalante dovrebbe tenere per sottrarsi al rischio di essere ritenuto gravemente colpevole, con giudizio assunto a posteriori. Né sembra ipotizzabile che il segnalante debba attivarsi autonomamente per verificare il grado di fondatezza dell’indizio prima di effettuare la segnalazione».

«È dunque evidente», conclude Nicoletta Pia di Cagno, senior associate di Tonucci & Partners, «che anche quest’ultimo intervento legislativo appare un’opera ancora incompiuta, che necessiterà sia di Linee guida chiare, che dell’implementazione di apposite idonee procedure aziendali che prevengano eventuali ripercussioni negative nei confronti di chiunque segnali una violazione del modello di gestione e organizzazione».

Il rischio di un abuso dello strumento

Secondo Mauro Miccio, of counsel di Piselli & Partners «l’“anonimato” della segnalazione, oggi positivamente riconosciuto, attiene più alla protezione del segnalante che al suo stesso contenuto. La possibilità di non rivelare l’identità, tuttavia, può in taluni casi favorire un abuso dello strumento da parte di coloro che vogliano diffamare un collega o un superiore. In tal senso, Transparency International Italia, e Allerta Anticorruzione (Alac), con la piattaforma online Globaleaks per esempio, ha tentato di ovviare ai problemi dell’anonimato, cercando di renderlo un’opportunità, nonché di garantire l’effettiva tutela delle due parti coinvolte: sia del segnalante per evitare anche indebitamente effetti discriminatori, sia del segnalato al fine di consentire, fin dall’inizio della procedura interna di verifica e controllo, di poter avere diritto ad una legittima difesa a tutela della sua moralità e della sua professionalità». Probabilmente, a parere di Emilio Battaglia, partner dello Studio Cms, «si è persa un’occasione per essere più incisivi nella lotta alla corruzione e, più in generale, nella tutela dell’integrità etica degli enti. Ciò in quanto, nel testo licenziato dal senato: è stata circoscritta la platea dei cosiddetti “segnalanti” ai soli soggetti in posizione apicale e quelli a questi subordinati, eliminando qualsivoglia riferimento a “coloro che a qualsiasi titolo collaborano con l’ente”; è stato eliminato il riferimento alla natura “obbligatoria” della segnalazione, declassata a una mera facoltà; è stato ulteriormente specificato l’oggetto della segnalazione che deve fondarsi su “elementi di fatto precisi e concordanti” e non più sulla mera “ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto”».

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