di Roberta Castellarin e Paola Valentini
L’industria dell’asset management continua a registrare nuovi record in termini di asset e raccolta netta. Merito del contesto macroeconomico favorevole, della propensione al risparmio degli europei ma anche di un nuovo alleato: il fisco. L’industria europea dell’asset management nel 2017 ha toccato il record di flussi a 756 miliardi di euro, raggiungendo 10.400 miliardi di masse in gestione. Continua quindi la preferenza dei risparmiatori verso prodotti costruiti e proposti da operatori professionali, che si tratti di fondi comuni, Etf o polizze vita. Abbandonata la logica dell’acquisto del titolo di Stato da tenere in portafoglio fino a scadenza, complici anche i rendimenti bassi o addirittura negativi offerti da molti titoli di Stato governativi. Il rendimento del Btp decennale italiano si attesta all’1,98%, quello del Bund tedesco allo 0,7%. E diversificare verso asset più rischiosi vuol dire assumersi dei rischi di cui è bene essere consapevoli. Come hanno dimostrato le correzioni dei listini avvenute tra venerdì 2 e giovedì 8 febbraio. D’altronde, avvertono gli esperti di Bank of America Merrill Lynch: «Quanto accaduto nei giorni scorsi è un risveglio che ci avverte che gli investitori hanno significativamente sottostimato i rischi dell’azionario».

Nello scegliere a quale strumento affidarsi per investire entrano in gioco, però, anche le considerazioni legate alla tassazione, perché la componente fiscale, soprattutto quando i rendimenti sono molto bassi, non è un dettaglio. Come sottolinea un report di Berenberg dedicato ai titoli quotati dell’asset management in Europa. «I gestori hanno un nuovo alleato. In Francia, Germania e Italia, i tre più grandi mercati dell’asset management del Vecchio Continente, hanno introdotto agevolazioni fiscali che portano benefici al settore. Anche la Danimarca ci sta pensando», dicono gli analisti. Gli esperti ricordano che questa spinta di un fisco più leggero si aggiunge agli altri fattori di crescita dell’industria. «Crediamo che gli investitori abbiano sottostimato e non apprezzato a sufficienza questa componente strutturale di crescita dell’industria del risparmio», dicono gli analisti.

Berenberg cita proprio il caso dell’Italia, dove l’anno scorso sono stati introdotti i Piani individuali di risparmio (Pir) esentasse (a determinate condizioni) creati per portare il risparmio delle famiglie verso l’economia reale italiana, fatta di aziende di piccole e medie dimensioni che hanno oggi difficoltà a reperire risorse nel canale bancario. Questi nuovi strumenti, che sono stati lanciati da sgr o compagnie assicurative sotto forma di fondi o polizze vita, hanno visto flussi in entrata maggiori delle attese. Il governo si aspetta una raccolta netta di 50 miliardi nei prossimi cinque anni, quindi un dato molto più alto delle prime previsioni, a 18 miliardi. «Crediamo che questo esempio rispecchi bene quale sia l’importanza del regime fiscale nel guidare i flussi di investimento. Peraltro, visto che per avere il beneficio fiscale i Pir vanno detenuti per cinque anni, ci aspettiamo che questi piani siano eccezionalmente stabili in termini di raccolta», dicono gli esperti di Berenberg.

Tanto più che l’Italia non rappresenta più un Paese da rentier. E così i Pir sono stati subito accolti con favore. Inoltre sono fondi o polizze con un’esposizione accentuata verso l’economia italiana, ma che permettono anche una componente di diversificazione su altri mercati e tra diverse asset class.

Equita sim stima che nel 2017 i flussi sui Pir abbiano toccato 11 miliardi di euro e prevede che per il 2018 supereranno i 9 miliardi. L’ultimo dato ufficiale sulla raccolta è contenuto nella mappa trimestrale di Assogestioni ferma a fine settembre 2017, la quale riporta un bilancio per i fondi legati ai Pir di 7,5 miliardi nei primi nove mesi (la mappa con i dati dell’intero 2017 sarà pubblicata nelle prossime settimane). In totale quindi, secondo le previsioni di Equita , nei primi due anni dall’entrata in vigore delle norme sui Piani individuali di risparmio (nati a inizio 2017 con la legge di Stabilità), il saldo dovrebbe superare i 20 miliardi. La proiezione è contenuta nel primo studio sulle small cap italiane e sui Pir (avrà cadenza trimestrale) in cui la sim sottolinea che le azioni delle società italiane a bassa capitalizzazione trattano a un multiplo di 18,3 volte gli utili attesi nel 2018, il che «si traduce in un premio del 29% rispetto al totale del mercato dove la media a cinque anni è 20». Proprio le pmi, come si accennava, sono il target dei Pir.

E il risparmiatore può esporsi a questi titoli non solo tramite fondi o polizze, ma anche costruendosi un giardinetto di azioni fai-da-te. A questo proposito il report di Equita costruisce un portafoglio Pir compliant, ottenuto utilizzando come componenti «i nostri portafogli in mid e small cap e in blue chip con l’aggiunta di alcuni bond societari», spiega la sim. Il benchmark di Equita Pir ha l’80% di azioni (50% Ftse Mib e 30% Ftse Italia Mid Caps) e il 20% di liquidità, «ma abbiamo comunque deciso di partire con una quota azionaria del 75%, di cui il 45% di blue chip e il 30% di mid e small cap, con il 10% in bond emessi da società italiane che copriamo e il cash al 15%», conclude Equita . Fra i titoli presenti ci sono (si veda tabella in pagina) azioni di media capitalizzazione come Fila , Interpump , Iren o Ovs , accanto ad alcune maggiori tra cui Buzzi Unicem , Ferrari , Luxottica , Unicredit e Unipol . Sono presenti anche bond di società italiane come l’emissione Ivs Group con rendimento a scadenza (2022) del 3,27% o quella del Credem al 2027 che rende il 3,39%. In sostanza i Pir consentono, nel rispetto di alcune condizioni, di non pagare tasse sui capital gain (ovvero non c’è il prelievo del 12,5 o del 26% previsto oggi sui guadagni generati dagli investimenti, rispettivamente, in titoli di Stato e negli altri prodotti finanziari) e nemmeno l’imposta di successione sul patrimonio investito. Ogni persona può scegliere un solo Pir e investire fino a 30 mila euro all’anno, senza superare il totale massimo di 150 mila euro. Per beneficiare dell’esenzione fiscale è necessario mantenere l’investimento per almeno cinque anni. Il portafoglio del Pir deve essere focalizzato sulle medie e piccole aziende italiane: almeno il 70% deve infatti essere investito in strumenti finanziari (azioni o obbligazioni) emessi da imprese italiane o europee (a patto che queste ultime dispongano di una stabile organizzazione in Italia). Di questo 70%, un minimo del 30% deve andare ad aziende che non fanno parte del Ftse Mib (l’indice principale della Borsa Italiana), cioè deve essere destinato all’acquisto di azioni o obbligazioni emesse da piccole-medie imprese italiane. Il restante 30% è libero e quindi può essere investito in titoli azionari oppure obbligazionari di altri emittenti, anche non italiani. «In poche parole l’investimento sarà rivolto soprattutto ad aziende italiane, sia sotto forma di obbligazioni che di azioni», spiegano da AcomeA Sgr. La quale evidenzia anche che il limite dei 150 mila euro vale soltanto per singolo risparmiatore, non per famiglia. Quindi, considerando la possibilità di intestare a ciascun componente del nucleo un Pir, il tetto può essere maggiore. «Per esempio, una famiglia di quattro persone può arrivare a ottenere uno sgravio fiscale sugli utili derivanti da un investimento pari a 600 mila euro». Sempre AcomeA fa una simulazione di quanto il vantaggio fiscale può aumentare i rendimenti. «Su 150 mila euro investiti e un rendimento medio annuo del 6%, per esempio, in 10 anni con un fondo Pir si possono guadagnare oltre 23 mila euro in più rispetto ad un fondo tradizionale. In 30 anni gli utili aggiuntivi diventano 161 mila euro. Ciò vuol dire che con un fondo che in media rende il 6% l’anno il rendimento di un fondo Pir è del 60% in 10 anni rispetto al 44% di un Fondo No Pir.

Su 30 anni, invece, il primo renderebbe il 413% e il secondo il 306%». Ma non bisogna dimenticare i rischi. «Con il Pir si investe almeno il 70% del portafoglio in strumenti finanziari emessi da aziende italiane: è quindi evidente che questo strumento sia prevalentemente esposto all’Italia. Naturalmente il Pir è un investimento che va affrontato allo stesso in modo degli altri: serve valutare in modo accurato gli obiettivi d’investimento, la composizione complessiva del proprio portafoglio e scegliere il prodotto più allineato al proprio profilo di rischio/rendimento e orizzonte temporale», avverte AcomeA. E bisogna fare anche attenzione ai costi. «Molte società stanno lanciando nuovi prodotti Pir, oppure stanno convertendo vecchi prodotti già esistenti, che hanno commissioni molto alte, senza che siano proporzionate al servizio di gestione», conclude AcomeA.

Sono stati lanciati o trasformati in Pir compliant diversi azionari storici specializzati sulle pmi, ma ora a prevalere sul mercato per numerosità sono i prodotti bilanciati (con diversi livelli di rischio) e non mancano anche alcuni obbligazionari.

I Pir peraltro non sono la sola novità introdotta per incentivare maggiori flussi di risparmio verso le pmi. La legge di Bilancio per il 2018 ha introdotto alcune novità anche per il mondo del peer to peer lending, volto a finanziarie le micro o piccole imprese. «Abbiamo colto con interesse la novità sulla tassazione degli interessi da investimenti sulle piattaforme di crowdlending, sostituendo l’aliquota marginale Irpef con una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta nella misura del 26%», dice Marco Valerio Bellini, presidente di Be Trust fiduciaria, che aggiunge: «uno degli aspetti più importanti per gli investitori italiani è il reddito. C’è sempre fame di cedole. Quindi avere a disposizioni maggiori fonti di reddito anche da società non quotate è utile». Si tratta poi, anche in questo caso, di un ponte verso l’economia reale. Così come è accaduto con i Pir. «I piani di risparmio hanno rappresentato una novità importante. Finora sono stati interpretati soprattutto in ottica di risparmio gestito, ma in realtà c’è la possibilità anche di creare conti Pir che possono ospitare piccole quote delle società di famiglia», aggiunge Bellini, che continua: «L’unico neo è il fatto che è stato fissato il limite nell’investimento su un singolo emittente al 10%. Una modifica a questo aspetto renderebbe questi strumenti ancora più interessanti per il mondo del wealth management».

Conclude Bellini: «La leva fiscale è importante e può aiutare a indirizzare i risparmi anche verso l’economia reale, ma deve essere accompagnata a uno sviluppo della consulenza e degli strumenti di monitoraggio dei rischi». Anche perché con il passaggio da un modello bancocentrico a un maggiore rapporto diretto tra risparmiatori e creditori è necessaria l’intermediazione di chi possa valutare e monitorare i rischi. Un tema importante anche per il fenomeno del marketplace lending, che proprio grazie alla riforma della tassazione, adesso equiparata a quella degli altri strumenti di investimento come fondi comuni, obbligazioni e azioni, è diventato uno strumento più appetibile per i risparmiatori.

«Il nuovo regime fiscale conferma che il peer to peer lending è uno strumento finanziario al pari degli altri», sottolinea Sergio Zocchi, amministratore delegato di Lendix. Che aggiunge: «La nostra proposta di offrire un canale di finanziamento alternativo alle piccole e medie imprese in Italia, Francia e Spagna sta riscuotendo interesse sia tra i potenziali creditori sia tra gli investitori istituzionali e privati. Noi facciamo un’attenta selezione dei progetti da finanziare e investiamo direttamente in ogni operazione proposta ai clienti. Il rendimento offerto è parametrato al rischio, Si tratta quindi di uno strumento in più per investire i risparmi», Dopo i primi tre anni di attività la società conta su 400 operazioni, 150 milioni erogati e un tasso di default e ritardi che non supera l’1%. Anche dal punto di vista dei Pir, che finora si sono focalizzati soprattutto verso azioni e obbligazioni quotate, diversificare in questo tipo di strumenti di direct lending può essere interessante.

Sul piano della durata e dei rendimenti, questi finanziamenti hanno scadenze che vanno da pochi mesi fino a sette anni e la remunerazione varia, a seconda del rating del creditore e della durata, dal 2,5 al 9%. Per il retail l’investimento massimo in ogni operazione è di 2 mila euro e questo garantisce la diversificazione dei rischi. «Bisogna anche ricordare che in ogni operazione l’investitore privato si muove sempre con gli istituzionali. Per ogni deal una quota del 51% è coperta da investitori professionali e il resto dal retail in modo che ci sia un allineamento degli interessi», dice Zocchi.
Restano agevolate anche le polizze vita, anche se negli ultimi anni c’è stata una stretta fiscale su questi prodotti (si veda box in pagina). In particolare uno dei punti di forza delle ramo I (le polizze tradizionali legate alle gestioni separate) è l’assenza dell’imposta di bollo (aliquota dello 0,2%) che invece è presente negli altri strumenti di investimento. Non prevedono questa sorta di mini-patrimoniale nemmeno i fondi pensione (e i fondi sanitari). Questi ultimi hanno anche un ulteriore vantaggio: i rendimenti scontano un’imposta con aliquota ridotta al 20%, al posto del 26% standard, anche se fino a qualche anno fa il prelievo era inferiore (11%).

Ma soprattutto nel caso delle polizze vita, accanto alle agevolazioni fiscali, bisogna considerare anche le commissioni. Se sul fronte dei fondi pensione, soprattutto nei negoziali e negli aperti, i costi sono più contenuti, nei prodotti assicurativi il conto per l’investitore può salire. Come spiega Roberto Russo, amministratore delegato di Assiteca Sim: «I prodotti vita hanno riscosso notevole successo nel mondo del risparmio gestito, tanto che la loro raccolta ha superato la soglia di 100 miliardi di euro annui. I motivi di tale crescita sono dettati principalmente dal fatto che le polizze offrono un valore aggiunto rispetto alle tipiche forme di risparmio gestito: il patrimonio sotto polizza non è pignorabile e non è sequestrabile salvo revocatoria, è prevista l’indicazione di soggetti beneficiari anche al di fuori dall’asse ereditario e, sotto il profilo fiscale, è possibile effettuare la compensazione tra minusvalenze e plusvalenze sino all’estinzione del contratto e differire il pagamento della tassazione sulle plusvalenze maturate al momento del riscatto; infine, in caso di decesso dell’assicurato, gli eredi beneficiano del regime di esenzione totale dell’imposta sulle successioni. Ma molto spesso i vantaggi appena descritti distolgono l’attenzione dei sottoscrittori dai costi sottostanti tale prodotto».

Russo spiega che «il gestore di una polizza vita percepisce una commissione annua fissa per l’attività di selezione degli investimenti», che spesso può essere superiore all’1% annuo, «un prezzo congruo su una gestione bilanciata». In alcuni casi il money manager «ottiene anche un premio di performance qualora i risultati oltrepassino soglie positive di rendimento prestabilite». Il costo complessivo degli altri soggetti (costo di strutturazione della compagnia, costo di collocamento del distributore e servizio di custodia titoli della banca depositaria) «dovrebbe in genere aggirarsi intorno allo 0,6% annuo dei premi conferiti», prosegue Russo. Purtroppo, «sempre più di frequente si verificano casi di polizze vita con costi fino al 5% su base annua, suddivisi tra commissioni di apertura del contratto, in media l’1%, e commissioni ricorrenti di sottoscrizione, gestione, riscatto e performance relative ai fondi selezionati all’interno del portafoglio. Altra pessima abitudine di alcune compagnie assicurative è quella di prevedere una penale molto onerosa per il contraente in caso di riscatto anticipato della polizza; recentemente ho esaminato un contratto che imponeva una penale del 6% su riscatti sia parziali che totali nei primi sei anni di vita del prodotto», prosegue Russo.

Per capire quanto andranno a pagare è opportuno che i risparmiatori leggano attentamente il contratto proposto dalla compagnia assicurativa prima della sottoscrizione dello stesso. E oggi i sottoscrittori hanno un’arma in più. La normativa Mifid II, in vigore dallo scorso 3 gennaio, ha imposto a tutti i player dell’industria del risparmio gestito maggiori obblighi di trasparenza; in sostanza sarà obbligatorio presentare ai clienti un prospetto preventivo e consuntivo delle spese. «Tale meccanismo di esplicitazione dei costi aiuterà i risparmiatori a comprendere con maggior chiarezza il profilo di rischio/rendimento sottostante i propri investimenti e si tradurrà inevitabilmente in una riduzione generale delle spese in capo ai sottoscrittori di prodotti finanziari», conclude Russo. (riproduzione riservata)

Come sono tassati gli strumenti finanziari in Italia
L’Italia non è più un paradiso da rentier. Fra tassi a zero e tasse, vivere di rendita diventa difficile anche per chi ha un patrimonio milionario. Dall’inizio della crisi i governi che si sono succeduti hanno deciso di attingere alla ricchezza delle famiglie per tenere in piedi i conti pubblici. È stata introdotta una patrimoniale ombra annuale che ha toccato lo stock di ricchezza investita in immobili o in titoli finanziari (titoli di Stato compresi). Per chi investe in titoli l’imposta di bollo è arrivata allo 0,2%, mentre, fatta eccezione per la prima casa, il conto è parecchio salato per chi punta sul mattone. Non solo. In pochi anni la tassazione sulle rendite finanziarie è più che raddoppiata, passando dal 12,5% al 26% (esclusi i titoli di Stato, rimasti al 12,5% e dei fondi pensione al 20%). Per la prima volta con l’introduzione dei Pir si è inserita la marcia indietro e si è usata la leva fiscale per incanalare i risparmi verso le imprese più piccole, quelle che più fanno fatica a ottenere credito e capitale. Ma come vengono tassate in Italia le diverse forme di investimento?

La tassazione delle cedole
I risparmiatori italiani da sempre amano forme di investimento che garantiscano flussi di liquidità sotto forma di cedole. Nel caso degli interessi da reddito fisso, l’aliquota di tassazione applicabile dipende dalla tipologia di titolo da cui essi provengono. Nel caso dei titoli di Stato e di altri titoli equiparati, l’aliquota di tassazione applicabile ammonta al 12,5%. Gli interessi derivanti dalla detenzione di altri titoli, tra cui ad esempio quelli derivanti dalla detenzione di obbligazioni emesse da società private, quotate e non, scontano un’imposta sostitutiva del 26%. I dividendi relativi alle azioni prevedono un’imposizione del 26%.

Le imposte sui guadagni in conto capitale
Le plusvalenze derivanti dalla vendita di azioni e obbligazioni sono soggette all’imposta sostitutiva del 26%. La stessa imposta vale in caso di capital gain realizzati investendo in fondi comuni. Le plusvalenze derivanti dalla vendita dei titoli di Stato e titoli equiparati scontano invece un’imposta sostitutiva del 12,5% e la stessa imposta è applicata in caso di fondi obbligazionari che investono in titoli di Stato. È ammessa la compensazione delle minusvalenze subite con le plusvalenze realizzate nel medesimo anno e nei quattro anni successivi.

Cosa accade alla liquidità
I conti correnti e/o libretti di risparmio bancari o postali intestati a persone fisiche sono assoggettati a un’imposta di bollo fissa di 34,20 euro su base annua. Sono esenti dall’imposta di bollo i libretti di risparmio e i conti correnti, detenuti presso il medesimo intermediario finanziario, qualora la giacenza media annua delle somme detenute nei suddetti rapporti sia non superiore a 5 mila euro. Ai fini del calcolo della giacenza media non si considera il valore dei conti correnti e libretti di risparmio che presentano una giacenza media negativa.

Imposta di bollo sui prodotti finanziari
Salvo alcune eccezioni, come ad esempio le polizze Vita tradizionali del ramo I (polizze rivalutabili) e i piani individuali pensionistici, i prodotti finanziari sono assoggettati a un’imposta dello 0,2% annuo. L’imposta si calcola sul valore dell’investimento al termine del periodo di rendicontazione o, in assenza di rendicontazione periodica, sul valore al 31 dicembre di ogni anno. I conti di deposito, a differenza dei conti correnti e dei libretti di risparmio, sono equiparati a forme di investimento e quindi scontano l’imposta di bollo e non quella fissa di 34,20 euro su base annua poiché, a differenza di quanto avviene nei rapporti di conto corrente, le somme depositate sui conti deposito sono vincolate e, quindi, non liberamente disponibili. I prodotti finanziari più comuni colpiti da tale imposta sono i titoli di Stato, le azioni, le obbligazioni o i fondi comuni. L’intermediario finanziario addebita al proprio cliente l’imposta in questione e la versa all’erario.

Investimenti all’estero
Sui prodotti finanziari detenuti all’estero si applica un’imposta dello 0,2%, in proporzione alla quota e al periodo di detenzione degli stessi. Sono considerati come detenuti all’estero per calcolare l’imposta solo i prodotti finanziari detenuti per il tramite di intermediari finanziari non residenti. Nel quadro RW del modello Unico sarà il contribuente stesso il soggetto obbligato a dichiarare l’entità dei prodotti finanziari detenuti all’estero e versare l’imposta dovuta. Nel medesimo quadro del Modello Unico vanno assolti gli obblighi in materia di monitoraggio fiscale. Dall’imposta dovuta si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito di imposta pari all’ammontare dell’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui i prodotti finanziari, i conti correnti e i libretti di risparmio sono detenuti. Il credito non può in ogni caso superare l’imposta dovuta in Italia. Non spetta alcun credito di imposta se con il Paese nel quale è detenuta l’attività finanziaria è in vigore una convenzione per evitare le doppie imposizioni (riguardante anche le imposte di natura patrimoniale) che prevede, per l’attività, l’imposizione esclusiva nel Paese di residenza del possessore.

Tobin Tax
La Tobin Tax è una tassa sulle transazioni finanziarie in vigore in Italia dal 2013. Il termine Tobin Tax prende ispirazione dal nome del suo ideatore, James Tobin, premio Nobel per l’economia nel 1981, che aveva previsto la necessità di una tassa che coprisse tutte le transazioni che avvengono sui mercati finanziari con il fine di garantire una certa stabilità e una diminuzione dell’attività di speculazione. Questa imposta si applica al trasferimento della proprietà delle azioni e degli strumenti finanziari partecipativi emessi da società residenti in Italia. I trasferimenti di proprietà di azioni o quote di Oicr, comprese le Sicav, non sono soggetti all’imposta. L’aliquota applicabile è pari allo 0,10% del valore della transazione nel caso di titoli quotati in mercati regolamentati e dello 0,20% negli altri casi. L’imposta non trova applicazione in relazione ai trasferimenti di azioni di società quotate con una capitalizzazione media inferiore a 500 milioni di euro. Anche le operazioni ad alta frequenza e quelle di negoziazione di derivati sono soggette all’imposta, ma con modalità ed aliquote diverse rispetto a quelle previste per le operazioni di compravendita di azioni.
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