di Stephanie Yang
Michael Poteat, studente di ingegneria alla Old Dominion University di Norfolk (Virginia) decise di cominciare a «estrarre» bitcoin quattro mesi fa. Impegnando parte delle proprie disponibilità in criptovaluta, acquistò venti mining rig, computer che risolvono le complesse equazioni necessarie a generare monete virtuali. Ma anche con un solo apparecchio in funzione, il salvavita dell’impianto di casa continuava a saltare. Così il ventenne valutò l’affitto di uno spazio commerciale, ma faticò a trovarne uno abbastanza grande e privo di vicini che non si sarebbero lamentati del rumore. Se la drammatica impennata del prezzo del bitcoin attira sia individui che multinazionali a cimentarsi con il mining, molti si trovano di fronte a problemi simili a quelli incontrati da Poteat. Il fenomeno ha fatto sorgere servizi di «hosting» o «colocation» che agevolano il mining alle masse fornendo infrastrutture, sicurezza ed elettricità. In febbraio, Poteat trasferì la propria attrezzatura in un data center gestito da Bcause, una società con appena cinque anni di vita che progetta di costruire la più grande attività di estrazione di bitcoin del Nord America. «Da soli è difficile gestire tutta la logistica», ha ammesso Poteat. La produzione di bitcoin può essere costosa e complicata, poiché richiede hardware specializzato ed enormi quantità di energia. Tali sfide hanno spinto da tempo i miner a condividere spazi e risorse. Oggi le aziende che ospitano attrezzature per il mining stanno accumulando un volume di richieste mai visto. Anche se il bitcoin è crollato di circa il 40% dal picco di dicembre, i volumi di calcolo fatti dai miner, noto anche come hash rate, ha continuato a crescere. Secondo gli osservatori di mercato, probabilmente è il segno del fatto che più minatori si stanno buttando nella mischia. Per effettuare i calcoli che vanno ad alimentare la rete di bitcoin, i miner sono ricompensati con nuove monete e commissioni di transazione. Maggiore è il valore di un bitcoin, maggiore sarà l’incentivo a dedicarsi al mining. Ma più minatori partecipano, maggiori sono i calcoli necessari a ottenere una ricompensa. Bcause è una delle imprese sorte per servire gli aspiranti miner. In un vecchio magazzino di bevande della Virginia, la startup tiene in funzione migliaia di rig per clienti dagli Stati Uniti all’Asia. Ha ricevuto 5 milioni di dollari in un Series A funding condotto dalla società di servizi finanziari giapponese Sbi Holdings, e prevede di raccogliere ancora molto. Bcause ha contratti con clienti all’ingrosso per ospitare circa 60 mila mining rig e servirà i clienti al dettaglio noleggiando le macchine libere, in un processo noto come «cloud mining». Conta circa 5.000 macchine installate e funzionanti, e prevede di attrezzare un altro sito nella Pennsylvania orientale. Inizialmente, la società è stata fondata con l’intento di proporre contratti di opzioni bitcoin rivolti agli investitori interessati a coprire i propri investimenti in criptovaluta. Ma il team ha deciso di incorporare i servizi di hosting l’anno scorso, quando il bitcoin ha avuto una forte impennata e il mining è tornato a essere redditizio. «La domanda è travolgente», ha dichiarato Fred Grede, amministratore delegato di Bcause ed ex dirigente dell’Hong Kong Exchange e del Chicago Board of Trade. «Ecco dove sono i ricavi». Una delle macchine più popolari, conosciuta come Antminer S9 e prodotta dalla ditta cinese Bitmain, fa spesso il tutto esaurito, costringendo i clienti ad attendere mesi per la consegna. Ogni piattaforma costa circa 2.300 dollari, ma può arrivare fino a 5.000 dollari sul mercato secondario. I clienti retail di Bcause possono affittarne uno per circa 4.800 dollari all’anno. La società ha rifiutato di fornire i prezzi riservati ai clienti istituzionali, che acquistano le proprie macchine. Generalmente i più grandi minatori di bitcoin del mondo si sono stabiliti in luoghi in cui l’elettricità è a basso costo e il clima è freddo per compensare il calore emesso dalle mining rig.

Tuttavia, l’ascesa spettacolare del bitcoin ha consentito una maggiore flessibilità di localizzazione. Peraltro, il giro di vite dato da Pechino sul mining potrebbe spingere molti a considerare aree alternative per gestire le operazioni. «Sono in tanti a non fidarsi a portare in Cina tutte le strutture», ha spiegato Michael Adolphi, direttore operativo di Bcause. «Abbiamo reso economicamente fattibile per loro portarli qui». Tuttavia, l’estrema volatilità del bitcoin ha fatto sorgere qualche dubbio su quanto a lungo durerà il boom dell’estrazione. A metà 2014, quando il bitcoin è sceso di oltre il 50% da fine 2013, a circa 500 dollari, il business del mining è stato costretto al consolidamento, ha ricordato Garrick Hileman, amministratore delegato della società di ricerca Mosaic.io. «La combinazione di hardware inefficiente e calo del prezzo del bitcoin ha indotto molti di loro a chiudere bottega», ha spiegato Hileman. L’industria potrebbe sperimentare un simile ridimensionamento se le quotazioni cominceranno nuovamente a calare, ha detto. Il livello a cui i minatori riescono ancora a gestire con profitto le piattaforme varia a seconda dei costi dell’elettricità, della portata e della difficoltà di estrazione. Alcuni miner stimavano che la soglia fosse intorno ai 1.000 dollari per bitcoin. Anche se su piccola scala la quota di uscita si attesta intorno a 4.000 dollari. Ai circa 11.700 dollari di inizio mese, i «minatori» rammentavano che il bitcoin tratta comunque a 10 volte il prezzo di un anno prima. «Al momento, le attività di mining sono ancora incredibilmente proficue», afferma un portavoce di Genesis Mining, società di cloud mining che noleggia potenza di calcolo. «Una delle maggiori sfide consiste nello sviluppo della capacità di estrazione per soddisfare la domanda». In quanto servizio di hosting, Bcause si ritiene isolata dai significativi shock di prezzo, dal momento che non investe nell’attrezzatura per il mining o nella criptovaluta stessa. Tra l’altro ha intenzione di costruire uno sportello unico per il trading di bitcoin, con scambi a pronti e derivati, nonché una stanza di compensazione, in attesa di approvazione da parte delle autorità. David Bowman, che dirige un piccolo centro di mining a Plattsburgh (New York) ha cominciato a vendere contratti per il cloud mining per via delle entrate più regolari. Tuttavia, ne ha riconosciuto i rischi. «La parte difficile è il prezzo», ha dichiarato Bowman, che ha 30 macchine in azione all’interno di un ufficio. «È un mistero, una specie di salto nel buio a volte».

traduzione di Giorgia Crespi
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