di Francesco Ninfole
L’Italia oggi vive un paradosso sui crediti deteriorati. Da un lato ci sono le banche, che devono ridurre le sofferenze accumulate negli ultimi anni a costo di venderle a volte a prezzi stracciati. Dall’altro ci sono fondi pensione e casse previdenziali, che sono alla ricerca di investimenti redditizi (in una fase di tassi bassi o negativi) per una grande quantità di risparmio e liquidità. Questi due mondi però non si incontrano. Il risultato è che i rendimenti del business delle sofferenze escono dai confini italiani e si dirigono verso i fondi esteri, che con i non performing loans guadagnano il 15-25% annuo (mentre gli istituti di credito registrano forti minusvalenze). Per l’Italia è un trasferimento di ricchezza verso l’estero. Perciò c’è chi propone di far confluire parte dell’enorme liquidità dei fondi pensione e delle casse previdenziali italiane verso i crediti deteriorati, anche attraverso agevolazioni fiscali e in modo indiretto. Così si potrebbe anche intervenire su una delle principali debolezze del settore bancario italiano: l’assenza di un mercato secondario degli npl.
In teoria c’è l’opportunità di prendere due piccioni con una fava. Ma come fare a mettere in contatto i due mondi ancora lontani? Un’analisi dello studio legale Cba, firmata dal partner Angelo Bonissoni e da Federica Cioni, ha osservato che nell’ultima Legge di Stabilità si è persa l’occasione di incentivare fiscalmente l’investimento in npl: «Sarebbe quantomai cruciale favorire l’intervento di investitori professionali con la finalità ultima di consentire lo smobilizzo di npl da parte delle banche», osserva Bonissoni. «Secondo i dati Covip le disponibilità delle casse previdenziali a fine 2015 ammontavano a ben 75,5 miliardi di euro, quelle delle forme pensionistiche complementari raggiungevano 112,5 miliardi di euro». Perciò, secondo il partner Cba, «è evidente che se investite, anche solo in parte, direttamente o indirettamente, in crediti deteriorati, tali risorse potrebbero contribuire alla gestione del problema npl». In tal senso «il legislatore nazionale avrebbe potuto prevedere l’intervento di fondi pensione e casse incentivando il processo anche sotto l’aspetto fiscale».
Cba ha rilevato che invece la legislazione è andata in una direzione differente: «La legge di stabilità 2015 presentava un riferimento all’agevolabilità dell’investimento indiretto di medio lungo termine (ossia veicolato da Oicr) in crediti da parte delle casse previdenziali e dei fondi pensione. Ma nella legge di bilancio 2017 il riferimento è del tutto assente. È stato incentivato l’investimento diretto e indiretto delle casse previdenziali e dei fondi pensione in equity, ma allo stesso tempo non è stata prevista l’agevolazione dell’investimento alternativo negli npl». Di conseguenza per Bonissoni «non è stata colta l’occasione per affrontare con la necessaria fantasia il problema npl, scegliendo di non coinvolgere operatori importanti nel mercato dei crediti deteriorati».
Una delle principali obiezioni agli investimenti dei fondi pensione negli npl è il rischio dei crediti deteriorati, non in linea con il profilo di un ente previdenziale. Secondo Bonissoni, tuttavia, ci sono modalità per ridurre il rischio. Innanzitutto attraverso l’investimento indiretto, cioè attraverso fondi specializzati nelle sofferenze bancarie. In secondo luogo, la partecipazione di fondi pensione e casse può essere limitata ad alcune tipologie di npl: per esempio alle tranche senior con garanzia pubblica Gacs, che hanno un rischio inferiore a quello negli investimenti azionari o immobiliari (che sono consentiti ai fondi). Le modalità insomma si possono studiare nel dettaglio (calibrando rischi e rendimenti attesi), ma è indubbio che la soluzione al problema npl passa dallo sviluppo di un mercato secondario, che a sua volta non può esistere senza un numero adeguato di investitori. Per gli enti previdenziali l’opportunità è di diversificare il portafoglio e aumentare i rendimenti. Secondo una ricerca di Tower Watson, i 300 più grandi fondi pensione mondiali (che a fine 2014 gestivano in totale 15.400 miliardi di dollari) investono il 42,2% del portafoglio in azioni, il 39,5% in bond e il 18,3% in asset alternativi (private equity, real estate, fondi chiusi alternativi) o liquidità. La quota in investimenti alternativi e cash in Europa (14%) è molto più bassa che in Nordamerica (28,7%). (riproduzione riservata)
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