Il digitale sta rivoluzionando il settore finanziario, ma l’ecosistema italiano non è ancora pronto a cogliere i grandi cambiamenti in corso, mostrando un ritardo nei trend tecnologici più significativi.

E’ quanto emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Digital Finance della School of Management del Politecnico di Milano presentata ieri al convegno “Digital rethinking nel banking e finance”.

Le startup Fintech aprono la competizione con gli attori tradizionali, creando anche opportunità di collaborazione, con un forte attivismo in particolare sui servizi bancari di base del mondo finanziario (funding & lending). Si diffondono le Application Program Interfaces (API), infrastrutture che consentono alle organizzazioni di diventare più “aperte”, di integrarsi con nuovi attori e di modificare il proprio assetto. Si inizia a comprendere il grande valore delle informazioni, ma oggi solo il 40% degli istituti finanziari cita i Big Data Analytics nei suoi piani strategici, utilizzandoli principalmente nella relazione con i clienti, molto poco nei prodotti finanziari. L’intelligenza artificiale rende più efficienti i processi di investimento nell’Asset Management, ma oggi solo il 18% degli istituti tradizionali utilizza strumenti digitali avanzati. È iniziata la rivoluzione della “Blockchain“, la tecnologia per le transazioni nata con i Bitcoin, anche se sono ancora poche le banche sperimentatrici, di fronte allincertezza su prospettive e tempi di utilizzo.

In questo contesto, di fronte a una riduzione della marginalità, mentre i requisiti di capitale sono aumentati negli ultimi anni e il valore di mercato è sensibilmente diminuito, il cambiamento nel sistema finanziario appare una scelta obbligata: “Il mondo finanziario e bancario è chiamato a cogliere la rivoluzione digitale aprendosi all’innovazione ed utilizzando strumenti per la digitalizzazione dei processi, ad una gestione più consapevole e a maggior valore del patrimonio dei dati interni ed esterni, fino ai sistemi transazionali evoluti, come la Blockchain – dice Marco Giorgino, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Digital Finance -. L’ecosistema italiano appare ancora in ritardo su questi fronti, ma le innovazioni in atto e quelle ancora all’orizzonte porteranno inesorabilmente gli attori finanziari e bancari a modificare il proprio modo di operare, trasformandoli radicalmente sia al loro interno che nelle modalità con cui servono i mercati”.

“Per fronteggiare la competizione allargata gli attori bancari oggi possono fare leva su due importanti vantaggi: il patrimonio informativo di inestimabile valore nel rapporto con il cliente e la sua conoscenza pervasiva – dice Filippo Renga, Direttore dell’Osservatorio Digital Finance -. Fondandosi su questo, con le analisi Big Data, possono valutare con maggiore velocità e precisione il merito di credito di un cliente, anche anticipandone i bisogni. Automatizzando il processo di investimento, invece, possono posizionarsi in modo complementare rispetto all’offerta tradizionale, ad esempio rivolgendosi a un target molto specifico”.

Nel mondo Finance sono già entrati diversi colossi del Web, come Google, Facebook, WeChat, Apple Samsung e Alibaba: “Nel breve-medio periodo gli istituti finanziari accusano un ritardo, in ambito digitale in termini di efficacia ed efficienza, rispetto ai grandi attori digitali internazionali e su alcuni servizi dovranno sottostare alle loro condizioni – dice Marco Giorgino -, ma da un attento monitoraggio della concorrenza e da una corretta valorizzazione dei propri asset, gli istituti finanziari possono estrarre il potenziale per mantenere nel lungo periodo un vantaggio competitivo anche in campo digitale”.

Le API Un alleato fondamentale per l’innovazione delle banche è costituita dalle Application Program Interfaces, righe di codice software standardizzate che permettono di interagire e scambiarsi dati in modo flessibile ed economico. Un’infrastruttura necessaria e pervasiva all’organizzazione che diventa ancora più importante con l’entrata in vigore della direttiva europea sui servizi di pagamento nel mercato interno PSD2 che obbliga gli attori finanziari ad aprire l’accesso ai propri conti per la creazione di nuovi servizi da parte di terzi.

Esistono diverse tipologie di API, che rispondono a specifiche esigenze. Le Open API sono accessibili da chiunque e messe a disposizione per creare servizi “terzi”, le Partner API sono rese disponibili ad attori esterni selezionati per lo sviluppo di servizi terzi, le Internal (o Private) API sono, invece, accessibili e utilizzabili esclusivamente da attori interni all’organizzazione, ad esempio per offrire al cliente finale un’user experience simile su diversi device e canali di interazione, ma anche per rendere più snelli e veloci i processi interni tra diverse funzioni.

Sono quasi 750 a livello internazionale le startup Fintech nate dal 2011 ad oggi per un totale di oltre 26,5 miliardi di dollari di finanziamenti raccolti. Un mondo in fermento che mette a disposizione dell’ecosistema finanziario nuove soluzioni e proposte. L’indagine svolta dall’Osservatorio Digital Finance rivela come la categoria più numerosa tra le startup, il 58%, è quella dei servizi di Banking, seguita dagli Investment Services (21%) e poi da altri servizi (17%). Il banking è anche la categoria che raccoglie i maggiori finanziamenti, il 72% del totale, con un particolare successo per le startup di Lending & Financing che da sole rappresentano il 59% (circa 16 miliardi di dollari). Il 96% delle startup Fintech si rivolge direttamente al consumatore o a un’azienda non finanziaria, ponendosi quindi come concreta alternativa alle banche anche come target. Seppure molte non riusciranno a disintermediare il mondo finanziario tradizionale, ne diventeranno un partner utile per i loro obiettivi.

“Una collaborazione strategica con le startup può permettere a un istituto finanziario di innovare in tempi più rapidi, testando nuove strade con investimenti più limitati – dice Filippo Renga -. Le startup hanno il vantaggio di poter sfruttare alcune leve differenziali, come il fatto di poter operare senza una rete fisica sul territorio e utilizzare in maniera nativa le grandi moli di dati che raccolgono, oppure di potersi muovere all’interno delle zone di grigio della regolamentazione”.

Il patrimonio informativo sui clienti è un patrimonio da scovare, estrarre e raffinare per essere messo a valore in tutti i processi aziendali. Ma i Big Data incidono ancora poco negli istituti finanziari, in particolar modo al vertice: solo il 40% dei maggiori istituti finanziari a livello internazionale fa riferimento ai Big Data nei propri piani strategici e la percentuale è addirittura più bassa, 35%, per gli istituti italiani inseriti nel FTSE Italia Banche. Lo rivela la ricerca condotta dall’Osservatorio Digital Finance su 400 fonti delle 63 maggiori banche a livello globale.

I progetti di Big Data analytics possono essere impiegati trasversalmente su tutte le aree di attività, ma oggi le applicazioni in ambito finanziario a livello internazionale sono prevalentemente solo nel marketing e nella relazioni con la clientela (quasi il 63% dei progetti). Sono ancora pochi (20%) i progetti che coinvolgono attività cardine del business bancario e finanziario, come il Risk Management, l’erogazione di credito o il supporto alle decisioni di investimento.

Gli istituti finanziari utilizzano nel 61% dei progetti solamente dati strutturati provenienti da fonti interne. I dati destrutturati ed esterni sono utilizzati rispettivamente solo nel 30% e 24%. La metà dei progetti (50%) sfrutta ancora dati analizzati in batch (raccolti nel tempo, archiviati e solo in un secondo momento analizzati), ma molti iniziano a sfruttare anche l’analisi in real-time (40%) e near real-time (10%), soprattutto nel rilevamento delle frodi legate ai pagamenti.

I dati per gli istituti finanziari costituiscono una grande fonte di valore, che si alimenta innanzitutto all’interno della propria organizzazione – rileva Marco Giorgino – La maggior parte degli istituti sta avviando una strategia Big Data iniziando dall’utilizzo dei dati interni. Ma è fondamentale gestire correttamente tutte le fasi, dalla raccolta, alla manutenzione, strutturazione e alimentazione dei dati, che toccano in modo trasversale tutta l’organizzazione, anche attraverso un nuovo mindset culturale”.

Nell’Asset Management si stanno sviluppando tecniche di intelligenza artificiale e servizi innovativi basati su Robo Advisor. L’indagine realizzata dall’Osservatorio Digital Finance su 185 attori tradizionali e 130 startup a livello internazionale rivela alcuni nuovi paradigmi digitali su segmenti non storicamente attrattivi per le aziende, ma anche alcuni servizi in diretta competizione.

Le startup dell’Asset Management infatti sono molto attive: offrono modelli di investimento black-box, soluzioni di investimento alternative alla tradizionale offerta delle factories come il Crowdfunding, servizi di Private Banking con attività comparabili a quelle degli incumbent ma con portafogli tarati su cluster di investitori omogenei, fino a servizi di Private Banking “digitali” con un livello di customizzazione profilato sullo specifico investitore.

Tra i grandi attori internazionali tradizionali dell’Asset Management invece solamente il 18% utilizza piattaforme digitali “avanzate” per la consulenza di investimento, mentre la maggioranza dei casi, l’82%, assiste i propri clienti in modo tradizionale (non significa che siano sprovvisti di piattaforme digitali, ma non sono utilizzate per la consulenza di investimento).

Gli attori “impegnati” nel Digital Asset Management hanno sfruttato il canale digitale per posizionarsi in modo complementare rispetto alla propria offerta tradizionale, ma i livelli di automazione del processo di investimento sono diversi: nella maggior parte dei casi (il 68%) la componente umana e robotica coesistono, nel 23% le piattaforme online offrono strumenti, analisi e informazioni in real-time, solo nel 9% sono presenti i cosiddetti “Robo Advisor”, piattaforme digitali capaci di generare servizi di consulenza di investimento in maniera automatica, senza alcun intervento umano, in modo coerente con le caratteristiche e gli obiettivi dell’investitore.

Il mondo finanziario è sempre più attento al “fenomeno Blockchain“, la tecnologia nata con la criptovaluta Bitcoin e poi applicata ad altri ambiti che ha potenzialmente impatto su tutte le transazioni, con benefici su costi, ottimizzazione dei processi, sicurezza, fonti di revenue, anche se c’è ancora incertezza sugli ambiti applicativi in cui sarà utilizzabile e sull’entità dei benefici rapportati agli investimenti.

L’indagine dell’Osservatorio Digital Finance con interviste al top management di oltre 40 attori, l’analisi di oltre 100 soluzioni Blockchain nel mondo, lo studio di 60 startup internazionali e l’approfondimento di oltre 200 fonti indirette rivela che le banche italiane guardano con attenzione al Blockchain, ma sono ancora poche le “sperimentatrici”. Le startup operanti in questo ambito invece accompagnano le banche nel dedalo di opportunità per scovare anche nuovi ambiti applicativi che la tecnologia potrebbe rivoluzionare. Ci sono startup che sviluppano soluzioni verticali, ossia creano una Blockchain ad hoc per uno specifico utilizzo, altre che sviluppano in logica open API su Blockchain già esistenti e quelle che hanno sviluppato soluzioni accessorie, senza utilizzare direttamente la Blockchain di riferimento.

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