di Luca Gualtieri

Scambio di favori finanziato indebitamente dalla banca o legittimo pegno a fronte di un prestito? È già scontro tra magistrati e difensori sugli acquisti di azioni compiuti dai clienti-soci di Veneto Banca, punto focale dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma. Secondo i pm Nello Rossi e Maria Francesca Loy, Montebelluna avrebbe concesso prestiti facili ad alcuni clienti di riferimento in cambio di acquisti di titoli che, in taluni casi, sarebbero stati finanziati dalla banca. Questa prassi avrebbe determinato uno scadimento della qualità del portafoglio prestiti e perdite per oltre 192 milioni. Oggi la difesa del direttore generale Vincenzo Consoli (indagato per ostacolo alla Vigilanza assieme all’ex presidente Flavio Trinca) è affidata a due avvocati di grido, Franco Coppi e Massimo Malvestio, che in queste ore starebbero mettendo a punto una strategia per smontare l’accusa. In particolare, i legali del banchiere potrebbero chiamare in causa lo statuto sociale di Veneto Banca. L’articolo 19, comma 3, prevede che le azioni della banca siano «soggette fin dall’emissione a vincolo e privilegio in favore della società, a garanzia di ogni obbligazione e di ogni credito, diretto e indiretto, anche se illiquido, che la società abbia a vantare nei confronti del socio». In sostanza, secondo i difensori, l’accoppiata credito-azioni non sarebbe stata un illecito scambio di favori, ma una garanzia prevista dallo spirito mutualistico dello statuto. Va detto che questa clausola non è un unicum di Veneto Banca, ma compare con alcune varianti negli statuti di numerose popolari, quotate e non: dalla Bper (articolo 19, comma 4) al Credito Valtellinese  (articolo 17, comma 3), dal Banco Popolare  (articolo 18, comma 4) alla Popolare di Vicenza (articolo 20, comma 3). La coincidenza non deve stupire, visto che generalmente nelle popolari i clienti sono anche soci e viceversa. Semmai nella vicenda di Veneto Banca si tratta di capire se l’acquisto di titoli sia stato finanziato con risorse dei clienti oppure prestiti della banca. Questa seconda ipotesi configurerebbe una chiara violazione dell’articolo 2358 del codice civile, quello che impedisce a una società di accordare prestiti o fornire garanzie per l’acquisto delle proprie azioni. Anche su questo punto però gli avvocati difensori sembrano avere le idee chiare. «I grandi affidatari della popolare (tra gli altri Marco De Benedetti, Giuseppe Stefanel , Gianfranco Zoppas, Francesco e Claudio Biasia, ndr) non avevano certo bisogno di finanziamenti per comprare pacchetti di azioni, mentre per quanto riguarda i piccoli clienti occorrerebbe dimostrare che al momento dell’acquisto fossero completamenti sprovvisti di liquidità», spiega Malvestio. La strategia della difesa è chiara: spostare l’attenzione dal caso di Veneto Banca all’intero mondo delle popolari per dimostrare che alcuni comportamenti sono un vezzo del sistema e non la pecca di un unico istituto. Una strategia che potrebbe trovare terreno fertile nel clima di queste settimane. Che si stia processando un sistema è sensazione diffusa tra banchieri e bancari, non solo perché in meno di una settimana sono assurte alle cronache tre inchieste su banche popolari (Veneto Banca, Ubi e Banca Etruria ), ma anche perché la tempesta giudiziaria è scoppiata proprio mentre il Parlamento è alle prese con il decreto legge Renzi-Padoan.

 

Ieri intanto è stata un’altra giornata intensa per Veneto Banca. Mentre l’istituto era alle prese con un singolare blackout telefonico che ha costretto dipendenti e top management a usare il cellulare per tutto il giorno, il consiglio di amministrazione si è riunito per fare il punto della situazione. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, Consoli avrebbe rimesso il proprio mandato nelle mani del board nell’interesse del gruppo. I consiglieri però avrebbero chiesto al banchiere di resta almeno per qualche tempo per traghettare la popolare fuori dalla tempesta. (riproduzione riservata)