Caselli: il decreto aprirebbe la porta a investitori interessati solo a speculare sui nostri titoli. Il decreto deve prevedere delle misure volte a limitare la contendibilità degli istituti

di Luca Gualtieri

Non si tratta più di preservare lo spirito mutualistico. Adesso le popolari difendono l’autonomia tout court. È stato questo il senso dell’intervento che ieri Ettore Caselli ha fatto alla commissione finanze della Camera in qualità di presidente di Assopopolari. Quella di Caselli è stata probabilmente è stata l’audizione più attesa a Montecitorio in riferimento al decreto Renzi-Padoan, che obbliga le dieci principali banche popolari a trasformarsi in società per azioni. «Il processo di demutualizzazione che il governo ha inteso avviare», ha spiegato il banchiere che è anche numero uno della Banca Popolare dell’Emilia Romagna , «comporta il rischio che nel capitale delle popolari possano entrare soggetti caratterizzati da connotati molto speculativi e volti a trarre vantaggio dalle particolari circostanze venutesi a produrre, secondo logiche spiccatamente opportunistiche». L’obiettivo della categoria dunque è ottenere strumenti che limitino la contendibilità delle nuove spa, preservandone in tal modo l’indipendenza. «La trasformazione in spa», ha precisato pertanto Caselli, «dovrebbe essere comunque accompagnata da misure finalizzate a mantenere l’attuale carattere di public company indipendente e andrebbe prevista non come obbligo cogente e ineludibile ma solo quale sanzione per le popolari che non completino un percorso finalizzato a riconoscere tra l’altro al voto capitario un ruolo non esclusivo e al voto proporzionale un ruolo non marginale», ha concluso il numero uno di Assopopolari. Che si è comunque reso disponibile a soluzioni di compromesso, ad aperture, anche ampie, alle ragioni del mercato: «Chiediamo con forza ai rappresentanti parlamentari di non disperdere la specialità che contraddistingue le popolari. Come categoria ribadiamo la più ampia disponibilità a individuare le modalità che meglio possano tutelare questa specialità, in un percorso che ci auguriamo possa risultare condiviso». Del resto si starebbe già lavorando già da qualche giorno a un compromesso. L’idea sarebbe un tetto del 5% (rispetto all’1% oggi in vigore) prevedendo però deroghe che consentano, in caso di soci vincolati da patti di sindacato, di superare tale soglia. In alternativa si potrebbero considerare soluzioni come il voto plurimo o quello scaglionato (un depotenziamento progressivo del diritto di voto al crescere della quota). Più difficile invece una convergenza sulla popolare ibrida, proposto qualche settimana fa proprio da Assopopolari, che consentirebbe di eleggere il cda (o il consiglio di sorveglianza nel caso di governance duale) tramite due canali differenti: gli investitori istituzionali esprimono un numero di consiglieri proporzionali al numero di azioni detenute, mentre il resto del corpo sociale continua a servirsi del voto capitario. Sempre ieri il dibattito parlamentare è stato animato dagli interventi di numerosi protagonisti del credito. A partire da banchieri come Piero Giarda, presidente del consiglio di sorveglianza della Bpm . «Le banche straniere potrebbero approfittare del decreto e sono interessate non tanto ai finanziamenti, ma alla gestione della massa finanziaria da dove si può guadagnare di più», ha avvertito Giarda, cui ha fatto eco con maggiore durezza il numero uno del Banco Popolare , Carlo Fratta Pasini: «Con la fine delle popolari e della banca localistica, gli istituti faranno ciò che fanno tutte le banche europee, sempre meno prestiti e sempre più gestione del risparmio che non assorbe capitale, non impone requisiti di liquidità e produce margini». Per Andrea Moltrasio (Ubi) «la forma del decreto non lascia un tempo» adeguato e rischia di rottamare anche «gli aspetti positivi del sistema». In mattinata invece erano intervenuti i rappresentanti dei sindacati bancari Fabi, Fiba, Uilca e Fisac. (riproduzione riservata)