Sta per aprirsi il sipario su una nuova puntata della lunga fiction avente per oggetto il trattamento di fine rapporto, vera e propria istituzione nell’immaginario collettivo del Belpaese. Il Tfr nel corso del tempo ha interpretato ruoli diversi. Nasce storicamente a inizio Novecento come assicurazione per la perdita del posto di lavoro, assume poi la natura di retribuzione differita fino a essere individuato dal legislatore previdenziale come fonte elettiva di finanziamento dei fondi pensione. Idea già lanciata nel dibattito da qualche anno, diventa ora il potenziale sostegno del tenore di vita attuale delle famiglie italiane. Nella legge di Stabilità si prevede infatti la possibilità, su base volontaria e in via sperimentale, per i lavoratori dipendenti del settore privato con rapporto di lavoro da almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro, di fare confluire il proprio Tfr in busta paga. La misura è applicabile anche nei confronti di chi abbia già aderito a una forma pensionistica complementare. La finestra temporale dell’operazione è relativa ai periodi di paga decorrenti dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018 con scelta irrevocabile fino al termine fissato dalla sperimentazione. Sono esclusi da tale opportunità i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo. Ugualmente non sono interessati i dipendenti pubblici in considerazione della specificità del rapporto di lavoro e la virtualità del loro Tfr (non va dimenticato che proprio in considerazione di questo profilo ai dipendenti pubblici in materia di previdenza complementare non è ancora applicabile la disciplina del silenzio assenso e il Tfr non è per esempio trasferibile a soluzioni di previdenza individuale). Ulteriore aspetto legato al Tfr in busta paga è quello fiscale con la previsione della tassazione progressiva con aliquota Irpef. L’obiettivo che il governo si pone è quello di rilanciare i consumi conferendo una ulteriore fonte di finanziamento integrativa al reddito familiare oltre al bonus degli 80 euro. Perché la finalità si raggiunga è però indispensabile, e in termini generali il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan lo ha sostenuto a più riprese, che si riattivi un generalizzato clima di fiducia in relazione al quale utile contributo potrebbe venire anche dal recente annuncio del Quantitative easing da parte della Bce. Finora, infatti, le statistiche sembrano testimoniare che le misure di sostegno al reddito poste in essere dal governo si sono tradotte in un incremento del risparmio precauzionale più che in un aumento dei consumi. Il lavoratore dipendente si troverà allora di fronte a una scelta: opto per il Tfr in busta paga, lo mantengo in azienda, lo destino al fondo pensione? Quali sono le valutazioni da ponderare? È utile differenziare le possibili casistiche, potendosi presentare il caso di chi già sia iscritto a un fondo pensione e di chi invece sia neoassunto o già lavori ma non sia iscritto già a una forma di previdenza integrativa. Per i già aderenti, nel caso in cui si decidesse di fare confluire il Tfr in busta paga, si prosegue la partecipazione nel fondo pensione con il solo contributo proprio e del datore di lavoro (salvo diversa previsione della fonte istitutiva). A fine periodo transitorio (30 giugno 2018) si riprenderà a versare anche il proprio Tfr allo strumento previdenziale. Considerando invece il caso dei nuovi assunti occorrerà in primo luogo comprendere, alla luce dei chiarimenti applicativi che dovranno essere forniti, come si concilieranno anche dal punto di vista amministrativo le diverse scelte. Se il nuovo assunto (ma il discorso vale anche per il lavoratore già in servizio che non si sia ancora iscritto al sistema della previdenza complementare) opta per la confluenza del Tfr in busta paga può comunque sempre aderire alla previdenza complementare versando la propria contribuzione e quella datoriale (sempre salvo diversa previsione della fonte istitutiva) per poi versarvi anche il Tfr dopo il 30 giugno 2018. Va però rimarcato che il non versare il Tfr al fondo pensione depaupera in maniera davvero sensibile la propria posizione previdenziale dal momento che esso rappresenta ben il 6,91% della retribuzione annua (il Tfr si calcola infatti in base all’art. 2120 cc dividendo la retribuzione annua per 13,5) e la Covip stimava che la contribuzione necessaria a costruire una pensione integrativa congrua dovesse essere pari al 10% della propria retribuzione. Non sembra un particolare neutro in termini di adeguatezza prospettica delle prestazioni previdenziali non solo da previdenza complementare ma in termini più generali dell’intero sistema previdenziale (previdenza obbligatoria + previdenza complementare). Ulteriore profilo da considerare è poi quello fiscale: il Tfr in busta paga, come già sottolineato, è soggetto a tassazione progressiva Irpef, mentre il Tfr in azienda è soggetto a tassazione separata e quello confluito nel fondo pensione viene assorbito dalla intera posizione previdenziale ed è assoggettato in sede di tassazione delle prestazioni finali a imposta sostitutiva del 15% sulle prestazioni finali che si riduce dello 0,30% per ogni anno di durata superiore al 15esimo con un minimo del 9%. Dal punto di vista fiscale potrebbe essere più conveniente ad esempio ricorrere in caso di necessità all’anticipazione per ulteriori esigenze in misura pari al 30% della propria posizione accumulata nel fondo pensione, tassata con aliquota del 23%, piuttosto che essere soggetto a tassazione ordinaria sul tfr in busta paga.(riproduzione riservata)