Milano D a una parte l’allungamento della vita media che cambia gli equilibri tra il numero dei contribuenti e quello dei pensionati. Dall’altro le esigenze dello Stato, che punta a ridurre la spesa pubblica in maniera progressiva e con un’incidenza strutturale, e che in questo sforzo non può prescindere dall’intervenire su una componente fondamentale come la previdenza. E’ un sentiero stretto quello lungo il quale si muovono le proposte di riforma del welfare italiano, chiamato a reinventarsi per assicurare sostenibilità. Gli ultimi anni di recessione hanno portato l’incidenza della spesa pubblica sul Pil a un passo dal 50%, con le pensioni che da sole incidono per un terzo. Un trend difficile da sostenere nel lungo periodo, anche alla luce della crescente pressione per una riduzione delle tasse (in particolare il cuneo fiscale, che penalizza eccessivamente lo stipendio netto rispetto al costo per l’impresa) che aiuti il rilancio dell’economia. L’ultima riforma di settore, nota con il nome dell’allora ministro Fornero (fine 2011), ha allungato l’età lavorativa, tanto che gli ultimi dati diffusi dall’Inps indicano che nel 2013 sono stati state liquidate 649.621 nuove pensioni, con un calo del 43% rispetto all’anno precedente. Lo stock resta tuttavia elevato con circa 18,5 milioni di prestazioni erogate ogni mese, che mettono a dura prova gli equilibri dell’Istituto previdenziale e costituiscono una pressione continua sui contribuenti. I quali, a loro

volta, si trovano oggi a fare i conti con carriere molto meno regolari rispetto al passato. Senza dimenticare la ricerca di nuovi introiti statali proprio a carico dei pensionati. Come si è visto negli ultimi anni, prima con il mancato adeguamento all’inflazione degli assegni, quindi con la previsione di prelievi di solidarietà sui compensi più elevati. C’è poi un altro tema che emerge da uno studio curato da Alberto Brambilla, già sottosegretario al ministero del Welfare e attuale coordinatore di Itinerari Previdenziali: circa il 50% della spesa pensionistica va a beneficio di pensionati che non hanno mai versato i contributi necessari (quindi neppure le tasse), e a farsene carico sono i contribuenti di oggi. Uno squilibrio destinato ad attutirsi nel tempo con la piena entrata a regime del sistema contributivo (che prevede pensioni commisurate alle somme versate durante la carriera lavorativa e non più parametrate a quanto percepito esclusivamente negli ultimi cinque o dieci anni di carriera), ma in misura comunque limitata. Così oggi non si più sapere se le oltre 7 milioni di pensioni che lo Stato integra oggi potranno essere integrate anche domani. Anche perché, sottolinea lo studio di Brambilla, sempre più giovani oggi vanno a lavorare oltreconfine, per cui versano i contributi all’estero. Senza dimenticare l’incidenza sul welfare della spesa sanitaria, che l’economista calcola in 1.833 euro annui pro-capite, anche se solo la metà degli italiani contribuisce al gettito fiscale. La prospettiva di pensioni sempre più striminzite — le stime più accreditate inditono cano che il rapporto tra pensione e ultime retribuzione non supererà il 50% a partire dal 2030, ma l’incidenza sarà ancora più contenuta per i precari di oggi — chiama alla responsabilità individuale di risparmiare (cosa, per altro, non certo facile di questi tempi) e indirizzare il denaro a investimenti potenzialmente più profittevoli rispetto al Tfr. Eppure, nonostante il tema sia al centro del dibattito da anni, l’adesione a forme di previdenza integrativa resta appannaggio di una minoranza di lavoratori del nostro Paese. Basti pensare che, complice la crisi occupazionale, nell’ultimo anno la Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione) ha rivelato un calo dello 0,7% negli iscritti ai fondi negoziali, per un ammontare inferiore ai 2 milioni (1,956 milioni). Ai quali vanno poi aggiunti gli iscritti ai fondi pensione aperti e ai pip di natura assicurativa, per un ammontare di poco superiore a quota 6 milioni di persone, meno di un sesto dei lavoratori italiani. Eppure i fondi pensione ormai da diversi anni stanno garantendo ritorni ben superiori al Tfr (la performance a tre anni è del 13% per i primi e dell’8% per il secondo). Un gap rispetto agli altri Paesi europei che potrebbe essere almeno in parte colmato con una maggiore informazione tra i lavoratori sul futuro che li attende e le caratteristiche dei diversi strumenti presenti sul mercato. (l.d.o.) L’incidenza della spesa pubblica sul Pil vicina al 50%, con le pensioni che incidono per un terzo